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ESTERI
II
Frattini: «Per la Nato l’Europa deve fare di più»
di
STEFANO MAGNI
è almeno una cosa peg-
giore del fare la guerra
con gli alleati. Ed è il dover combat-
tere senza di loro». Lo disse Winston
Churchill, lo ricorda il professor Ju-
lian Lindley French, in occasione
della 58^ Assemblea Generale della
Atlantic Treaty Association (Ata).
Mai citazione sarebbe più appro-
priata (e sofferta) per descrivere il
futuro immediato dell’Alleanza
Atlantica. «È un errore, da parte eu-
ropea, meravigliarsi del “rebalan-
cing” americano dall’Atlantico al
Pacifico. Perché questa prospettiva
c’è sempre stata. Quando il presi-
dente Obama si insediò alla Casa
Bianca, la prima fase dei viaggi di
Hillary Clinton riguardò soprattutto
le potenze emergenti dell’Asia». Lo
spiega, a
L’Opinione
,
l’onorevole
Franco Frattini, presidente della Sioi
(
Società Italiana per l’Organizzazio-
ne Internazionale) già ministro degli
Esteri e attualmente candidato uffi-
ciale dell’Italia alla Segreteria Gene-
rale della Nato. «Dobbiamo dimo-
strare la nostra capacità di europei
di saper fare di più. Non possiamo
criticare l’unilateralismo americano
del passato e poi chiedere agli Usa
di contribuire, per il 68%, alle spese
della difesa dell’intera alleanza».
Onorevole Frattini, questa maggio-
re autonomia europea richiede
maggiori spese per la difesa. Come
affrontarle in tempi di crisi econo-
mica?
Non dobbiamo ridurre, ma ot-
timizzare. E soprattutto: coordinare.
«
C’
Una volta per tutte, deve essere la
Nato il luogo di coordinamento del-
le eventuali riduzioni. Altrimenti di-
ventano tagli orizzontali. Che sono
la cosa peggiore, perché escludono
la scelta politica. La riduzione con-
cordata, invece, reintroduce la pos-
sibilità di scelta politica: a cosa ogni
Paese deve dare la priorità e cosa,
invece, può sacrificare.
Su quali specialità dovrebbe concen-
trarsi l’Italia?
Noi abbiamo una grande espe-
rienza di prevenzione e sorveglianza
nel bacino del Mediterraneo. Abbia-
mo già sperimentato reti di sorve-
glianza molto importanti, in funzio-
ne anti-terrorismo e anti-pirateria.
E risultiamo fra i migliori in assoluto
nell’addestramento di forze alleate.
In aggiunta a tutto questo, alcuni
corpi italiani hanno dimostrato una
grandissima capacità sul campo.
Penso ai Carabinieri, agli Alpini e ai
corpi scelti dell’Esercito.
Qual è la principale minaccia alla
Nato?
A mio avviso le minacce più pe-
ricolose sono quelle che si diffondo-
no più rapidamente. E mi riferisco
ad un ‘arco del terrore’ che com-
prende ancora aree dell’Afghanistan
e si sta allargando dallo Yemen al-
l’Africa del Nord, sino al Sahel
nell’Africa occidentale. A questo si
aggiunge un rischio più “convenzio-
nale”, che è quello delle armi di di-
struzione di massa, in particolare la
proliferazione nucleare iraniana. E
infine abbiamo la minaccia “asim-
metrica” per antonomasia, quella
che arriva dal cyberspazio: la pos-
sibilità di un attacco informatico ai
nostri sistemi elettronici e alle nostre
infrastrutture.
A cosa dovrebbe essere data priorità
nella difesa dell’Alleanza, soprattutto
considerando che avremo risorse li-
mitate?
Io credo che non vi sia incompa-
tibilità fra differenti settori. La prio-
rità strategica va data agli investi-
menti nella ricerca e sviluppo delle
nuove tecnologie di sicurezza, che
poi possono essere applicate sia alla
cyber-security, che all’individuazione
delle armi di distruzione di massa e
alla lotta anti-terrorismo. La Nato
avrà, l’anno prossimo, la possibilità
di fare un grande esperimento in Af-
ghanistan: come sostenere le forze
di sicurezza locali dopo il ritiro dei
contingenti? Quello sarà un test as-
solutamente fondamentale.
In veste di ministro degli Esteri ita-
liano, lei ha svolto un lungo lavoro
di mediazione fra Nato e Russia.
Ora lo scudo anti-missile sta entran-
do in fase operativa e la Russia lo
vede come fumo negli occhi...
Paradossalmente, l’occasione che
deriva dalla grave crisi siriana, che
ha imposto lo schieramento di bat-
terie anti-missile Patriot in territorio
turco, potrebbe essere l’elemento
concreto di prova che la difesa scat-
ta per obiettivi estranei alla Russia.
Il caso della Siria è eclatante: c’è un
pericolo, almeno teorico, di possesso
di armi chimiche da parte del regime
di Damasco. C’è una possibilità con-
creta di escalation contro un mem-
bro della Nato. Quindi, con un po’
di pragmatismo, possiamo dimo-
strare agli amici russi che l’impiego
della nostra futura difesa non è ri-
volto contro di loro.
Proprio a proposito della Siria,
però, la Russia si contrappone alla
posizione delle democrazie occiden-
tali... Una via di uscita da quella crisi
può anche essere diplomatica e l’ha
suggerita la stessa opposizione siria-
na: un negoziato attraverso l’attuale
vicepresidente Faruk al Sharaa. Una
persona che io ben conosco, perché
fummo assieme ministri degli Esteri
nel 2002 e nel 2003. Una strategia
di transizione simile è già stata spe-
rimentata con successo nello Yemen,
dove il vecchio vicepresidente è di-
ventato il primo presidente eletto.
Una soluzione analoga in Siria
avrebbe l’effetto immediato di ri-
durre la tensione con la Russia.
L’Iran sembra essere teatro di una
crisi nucleare senza fine. Se si doves-
se arrivare alla “resa dei conti” qua-
le potrebbe essere il ruolo della Na-
to?
Io penso che il mondo attraver-
serebbe una fase tragica. È bene non
prefigurare questo scenario. Oggi
c’è un fatto nuovo: la posizione co-
raggiosa presa dal vicepresidente
statunitense Joe Biden, che ha offer-
to per la prima volta all’Iran un dia-
logo diretto. La risposta del ministro
degli Esteri iraniano è stata di par-
ziale apertura. Ma un fatto è certo:
questa offerta così esplicita e corag-
giosa è utile a far emergere l’even-
tuale bluff (se c’è) da parte iraniana.
Il prossimo 5+1 (conferenza nego-
ziale sull’Iran che include i 5 membri
permanenti del Consiglio di Sicu-
rezza più la Germania) che si terrà
in Kazakhstan sarà rivelatore.
E per quanto riguarda l’ingerenza
umanitaria, sarà possibile intervenire
in difesa dei diritti umani anche do-
po i necessari tagli alla difesa?
La giurisprudenza del Consiglio
di Sicurezza, a mio avviso, ha scritto
delle pagine importanti. Sempre più
cominciano a funzionare strumenti
come la Corte Penale Internazionale.
Una riflessione si impone: nel XXI
secolo si deve giungere alla conclu-
sione che i diritti degli esseri umani,
prima di tutto il diritto alla vita e
alla dignità, sono inviolabili e devo-
no essere protetti. Dalla “responsa-
bilità” a proteggere si arriverà al
dovere” di proteggere. La giuri-
sprudenza del Consiglio di Sicurez-
za, pur senza scrivere un nuovo trat-
tato, è sempre più esplicita in merito.
Parla l’ex ministro:
«
Sbagliato meravigliarsi
per il “rebalancing”
americano inAsia»
«
Non possiamo criticare
l’unilateralismo Usa
e poi far pagare a loro
il conto dell’alleanza»
L’AlleanzaAtlantica sfida il ventunesimo secolo
iamo abituati a pensare alla Na-
to come all’alleanza della Guerra
Fredda. Allora si trattava di dissua-
dere l’Urss e i suoi alleati dall’attac-
care l’Europa occidentale. Questa
azione era la deterrenza, rafforzata,
soprattutto, dal possesso di armi nu-
cleari. Oggi questo scenario non esi-
ste più. Per fortuna. In compenso ci
sono ben altre minacce dirette: ter-
rorismo, cyberterrorismo (attacchi
informatici), armi di distruzione di
massa possedute da regimi impre-
vedibili e fanatici, come Iran e Corea
del Nord. Come se non bastasse, la
Nato è piagata dalla crisi economica
che coinvolge tutta l’eurozona. Di
fronte alle nuove minacce (e tenen-
do conto che di soldi ce n’è pochi),
stanno emergendo nuovi concetti e
nuove strategie. Termini ricorrenti
quali
interoperability”
(
interope-
rabilità),
smart defense”
(
difesa in-
telligente),
readiness”
(
prontezza)
che stanno archiviando la vecchia
idea di deterrenza e difesa. A mar-
gine della 58^ Assemblea Generale
dell’Atlantic Treaty Association, en-
triamo in questi nuovi concetti as-
sieme ad Antonella Cerasino, della
divisione Diplomazia Pubblica della
Nato. «Interoperabilità è la capacità
dei membri della Nato di operare
assieme, a tutti i livelli, dalle strut-
ture di comando fino alle operazioni
di teatro – ci spiega - Non esistendo
un esercito unificato della Nato, le
forze nazionali dei vari paesi mem-
bri devono saper lavorare assieme.
In Afghanistan, i contingenti Nato
hanno acquisito questa capacità.
Dopo la prossima fine delle opera-
S
zioni in Afghanistan il problema che
si pone sarà come far tesoro di que-
sto bagaglio di esperienze. E di come
farlo con sempre più esercitazioni
negli anni a venire». La Libia, tut-
tavia, ha dimostrato che, senza il so-
stegno americano, gli alleati europei
avrebbero potuto fare ben poco…
«
La Libia ha mostrato quale sia il
gap tra Usa ed Europa. Perché in al-
cune aree, come quella che riguarda
la sorveglianza e la ricognizione
(
quella che viene chiamata Intelli-
gence Surveillance Reconnaissance),
i Paesi del Vecchio Continente si so-
no rivelati ancora inadeguati rispet-
to agli alleati d’oltre oceano. Adesso
si stanno facendo primi passi avanti
in questo settore, come l’Allied
Ground Surveillance, un sistema di
cinque droni che dovranno moni-
torare i teatri di operazione. Con gli
accordi presi al summit di Chicago
(2012)
sarà nelle mani di cinque
Paesi Nato, fra cui l’Italia. E la base
dell’Ags sarà a Sigonella». Si parla
anche di
readiness”
,
come concetto
fondamentale rispetto all’attuale
deployability”
(
capacità di spiega-
mento,
ndr
).
Cosa cambierà, all’atto
pratico? «Gli scenari attuali ci fanno
presagire che in futuro non ci saran-
no più grandi e durature operazioni,
come quella in Afghanistan – ci spie-
ga Antonella Cerasino – Questo pe-
rò non vuol dire che le forze armate
non debbano essere pronte all’im-
piego, in caso di necessità. Quindi
si passa da una fase più attiva di
reale dispiegamento di forze sul ter-
reno, ad una di preparazione per un
eventuale intervento fuori area». Il
futuro sarà fatto di “piccole guer-
re”? «Le ipotesi attuali prevedono
interventi più limitati, per periodi
più brevi. Ma naturalmente bisogna
essere pronti anche ad eventuali
surge”, (invii di ondate di rinforzi,
ndr
).
In generale, sia nelle opinioni
pubbliche che nell’establishment po-
litico, c’è una sorta di fatica per le
missioni all’estero. È per questo che
nessuno immagina altri coinvolgi-
menti in conflitti di lunga durata».
La “smart defense” si riferisce al-
la suddivisione “intelligente” di
compiti fra le varie forze armate. Un
esempio di smart defense è la difesa
anti-missile: base di comando a
Ramstein (Germania), basi avanzate
in Romania e in Polonia e tecnolo-
gie prevalentemente americane, uti-
lizzate da specialisti di tutti i Paesi
della Nato. Il tutto per proteggere
eventuali bersagli civili e militari eu-
ropei da un (possibile, ma, si spera,
non probabile) lancio di missili ba-
listici. Come mai, però, le tecnologie
anti-missile ci sono già tutte, ma per
uno spiegamento completo bisogna
ancora attendere da qui al 2020?
«
La decisione politica di dotarsi di
una difesa anti-missile della Nato è
stata presa a Lisbona nel vertice del
2010.
Da lì in poi sono stati com-
piuti i primi passi. Al vertice di Chi-
cago è stata dichiarata una “interim
capability”, una prima capacità di
difesa contro un eventuale attacco
missilistico. Si andrà avanti a tappe,
a fasi, fino al 2018-2020. Vedremo,
negli anni successivi cosa sarà ne-
cessario fare per passare da una “in-
terim capability” ad una “full ca-
pability”. La lentezza di questo
processo non è politica o diploma-
tica. Le decisioni fondamentali, or-
mai, sono state prese. Certo ci sono,
però, tempi tecnici obbligatori, so-
prattutto per sistemi complessi co-
me quello anti-missile. Richiedono
molti investimenti, molta nuova ri-
cerca e sviluppo. Anche se la deci-
sione è già stata presa, la sua attua-
zione avviene in un certo numero
di anni». Sperando che, nel frattem-
po, qualche “stato canaglia” non ci
batta sul tempo...
Le nuove strategie
della Nato di fronte
alle minacce del XXI
secolo e alla recessione:
dala“interoperability”
alla“readiness”
senza dimenticare
la“smart defense”
L’OPINIONE delle Libertà
MERCOLEDÌ 6 FEBBRAIO 2013
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