di
LUCA PAUTASSO
Doha l’Europa resta da sola.
Sarà che la capitale del Qatar
si presta ad essere un’ambientazio-
ne ottimale, ma sulle tematiche am-
bientali la posizione dell’Ue somi-
glia sempre di più all’evangelica
voce che grida nel deserto”. E così
la linea dura di Bruxelles, che con-
tinua a chiedere di ridurre unilate-
ralmente del 30% le emissioni di
CO2 prima del 2020, rispetto al
20%
previsto dal protocollo di
Kyoto, rischia di rimanere senza
sponde internazionali.
«
Lo avevo detto ancor prima
che iniziasse e oggi, che mi trovo
qui, posso confermarlo: il vertice
di Doha si sta rivelando l’ennesimo
buco nell’acqua». Così l’eurode-
putato della Lega Nord Oreste
Rossi interveniva ieri da Doha, do-
ve si sta svolgendo la diciottesima
Conferenza mondiale sui cambia-
menti climatici, alla quale l’eletto
del Carroccio partecipa in qualità
di membro della commissione Am-
biente al Parlamento europeo.
«
Abbiamo incontrato la delegazio-
ne dei produttori giapponesi di au-
to e acciaio, i quali hanno ribadito
che vogliono continuare sulla stra-
da del cosiddetto approccio “pled-
ge and review” alla riduzione di
emissioni di gas serra, ovvero non
hanno alcuna intenzione di accet-
tare obblighi vincolanti ma prefe-
A
riscono prendersi degli impegni
non formali» ha spiegato Rossi.
Ma gli industriali del Sol Le-
vante non sono gli unici a respin-
gere al mittente il virtuosismo am-
bientalista made in Ue. I primi a
fare orecchie da mercante sono
proprio i paesi in via di sviluppo,
per i quali un qualunque tipo di
vincolo ecologico in questo mo-
mento finirebbe inevitabilmente
per tradursi in una zavorra alla cre-
scita del tessuto industriale, econo-
mico e produttivo. Zavorra che,
tra l’altro, già sta facendo sentire
da tempo i suoi gravami sulle spal-
le dei produttori europei, fortemen-
te penalizzati rispetto alla concor-
renza extracomunitaria.
Senza contare poi la diffidenza
dei “grandi”: «Già sul Protocollo
di Kyoto - ricorda infatti Rossi -
mancano le adesioni di Stati Uniti,
Russia, Giappone e Canada, e sono
in forse quelle di Australia e Nuova
Zelanda». A mettersi di traverso,
in questo momento, è soprattutto
Washington, nonostante la presi-
denza “liberal” e “green”. La de-
nuncia dell’eurodeputato del Car-
roccio è esplicita: «Obama,
rifiutandosi di far pagare alle com-
pagnie aeree americane la tassa sul-
le emissioni di carbonio imposta
dall’Ue, ha lasciato sola l’Europa
a combattere l’inquinamento da
anidride carbonica, proprio come
avevano già fatto Cina ed India».
Con premesse come queste, la
conferenza di Doha rischia seria-
mente di rivelarsi «la brutta copia
di Durban», così come la definisce
Rossi. «E non sono l’unico a pen-
sarla così - aggiunge - visto che da
più parti si sente dire che molto
probabilmente si riuscirà solo a
trovare un accordo per prolungare
Kyoto 1, in scadenza a dicembre,
forse con qualche sforzo in più da
parte dei paesi emergenti».
Inutile farsi troppe illusioni
sull’esito della conferenza: «Un ac-
cordo vincolante è ben lontano dal
poter essere raggiunto», ammoni-
sce l’europarlamentare.
II
POLITICA
II
L’estremismo ambientalista
lascia l’Europa senza amici
Renzi e l’onore
della sconfitta
K
Oreste ROSSI
Hannomandato all’inferno la classe operaia
a classe operaia va in paradiso
,
il film di Elio Petri del 1971,
più che un film satirico, oltre che
drammatico, si rivela oggi anche
un film profetico. Perché non solo
nel tempo una parte della classe
operaia italiana non ha sostanzial-
mente mutato la propria difficile
condizione, ma perché, pur volen-
dola mantenere non ci riesce e ri-
schia per di più continuamente la
disoccupazione. Quattro decenni
sono passati invano e non hanno
insegnato nulla. Non mi riferisco
né all’articolo 18 né al cuneo fi-
scale, ma piuttosto alla condizione
di vera e propria sudditanza alla
quale certe categorie operaie sono
state costrette da una inesistente
o ideologicamente colpevole po-
litica di sviluppo industriale, che
si dimostra non di avanzamento
economico e civile, ma piuttosto
di complessiva regressione.
Veniamo al punto. A vario mo-
tivo l’Ilva, l’Alcoa, la Fiat, sono
tre vicende di un processo di sfal-
L
damento della struttura produtti-
va italiana riconducibile alle me-
desime cause, anche se apparen-
temente diverse.
Allo stesso modo che i dissesti
idrogeologici, quindi inondazioni
e frane, sono tanto frequenti nel
nostro territorio per causa di as-
senze di politiche concretamente
ambientali, le crisi delle tre azien-
de sunnominate sono inquadrabili
in politiche industriali assenti o
miopi, quando non colpevolmente
e artatamente perseguite.
Per quanto alla Fiat appaia evi-
dente, al di là di ogni considera-
zione di convenienza aziendale o
familiare, che pur esiste, una mio-
pia di fondo di coloro che facendo
per mestiere i manager non hanno
previsto per tempo la saturazione
del mercato interno in primo luo-
go e la comparsa sulla scena pro-
duttiva di altri
competitor
.
Nel ca-
so specifico poi, l’errata
collocazione di uno dei suoi sta-
bilimenti a Termini Imerese, sulla
splendida costa palermitana, è la
cartina di tornasole della totale
assenza di cultura di intere classi
politiche e sindacali che hanno
giudicato nella sola industria pe-
sante l’unica via di salvezza per le
popolazioni dell’Italia meridiona-
le. Sono così state volutamente
ignorate altre possibilità di lavoro
e sviluppo che avrebbero potuto
dare migliori risultati oltretutto
nel rispetto e nella conservazione
del territorio.
Circa l’Ilva, vale la medesima
valutazione fatta per la Fiat. L’in-
dustria pesante è stata, anche in
questo caso, vista come unica via
di produzione di reddito. Posizio-
nata in una regione meridionale,
in un territorio anch’esso ben
connotato per possibili e migliori
altri sviluppi. Una industria per
definizione fortemente punitiva
della personalità e indipendenza
di coloro che vi prestano la loro
opera i quali, ben che vada, ri-
marranno sempre in una condi-
zione di subordine dalla quale
molto difficilmente si esce e che
diventa pertanto antitetica alla
possibilità di scalata sociale o più
semplicemente alla conquista di
una autonomia di vita.
Anche per l’Alcoa valgono le
medesime considerazioni. Con
l’aggravante, per tutte e tre queste
aziende, che esse operano in re-
gime di scarsa concorrenzialità
soprattutto per gli elevatissimi co-
sti dell’energia.
Che in Italia sia assente una
politica industriale lo abbiamo
detto ed è provato, ma che la vi-
sione sia tanto limitata fino a di-
ventare premeditato e colpevole
atto teso, anche attualmente, a
proseguire in un errore che si ri-
velerà ben presto di portata sto-
rica, questo è un altro dato di
fatto.
Non si affronta una qualsiasi
attività senza strumenti adeguati:
un corpo naturalmente dotato e
ben allenato per qualsiasi attività
sportiva, un’automobile sportiva
appositamente progettata per ga-
re di corsa, un approvvigiona-
mento energetico degno di questo
nome per aziende la cui materia
prima (non secondaria quindi) è
proprio l’energia. Che noi non
possediamo!
E inoltre. Come se una sana
economia non si dovesse fondare
su un mix quanto più vario pos-
sibile di attività, sia per motivi di
complementarità che per suddi-
visione di rischi, si è operato vo-
lutamente trascurando le possi-
bilità offerte dal patrimonio
ambientale e culturale dei terri-
tori meridionali, per inserirvi in-
naturalmente, ciò che oggi si sta
palesando come fallimentare sot-
to ogni punto di vista.
Nonostante timidamente qual-
cuno azzardi ad ammettere che
sì, forse, anche le attività turisti-
che o artigianali, o quelle agricole
insieme alle loro industrie di tra-
sformazione dei prodotti della
terra, congiuntamente alla indu-
stria manifatturiera, alla ricerca
per produzioni ad alta tecnologia,
potrebbero essere le carte vincenti
per lo sviluppo del meridione
d’Italia, nulla e nessuno prova a
inserire ciò tra le priorità da por-
re allo studio per la successiva
realizzazione. Ma tant’è, decenni
di prediche inutili non hanno ri-
mosso gli spessi strati ideologici
e gli interessi di larga parte dei
responsabili politici ed economici
di questo paese.
Si continua così a lasciare che
certe aziende continuino la loro
attività devastante pur in compe-
tizione con altri paesi meglio
energeticamente attrezzati, come
Cina e India, meno sensibili alle
priorità umane e ambientali.
Siamo quindi destinati a per-
dere per impari competizione ma,
quel che è ancora più grave, per-
diamo nello stesso tempo la pos-
sibilità di dotarci diversamente di
altre risorse produttive, mentre
alla classe operaia si rischia di
aprire definitivamente la porta
dell’inferno per la incertezza del
futuro prima e per la certa disoc-
cupazione poi. Anticamera di
quanto di peggio l’Italia dovrà
presto affrontare.
GIUSEPPE BLASI
ono passati già alcuni giorni
dalla sconfitta di Renzi alle
primarie e ancora non ha fonda-
to un proprio partito, né una cor-
rente, né una fondazione e nep-
pure un
think-tank
che fa tanto
chic, non ha chiesto di essere
candidato al Parlamento, né di
fare il ministro, né mi risulta che
abbia ancora chiesto di inserire
i suoi fedelissimi nelle liste bloc-
cate. Beh, tanto di cappello.
Non apprezzo le sue poche
idee politiche, non credo nel nuo-
vismo fine a se stesso e non mi
piace il suo semplicismo nel par-
lare perché denota la presunzione
di chi pensa di rivolgersi ad un
popolo ignorante, ma adesso lo
ammiro per il modo onorevole in
cui finora ha preso la sconfitta.
In una democrazia normale, al-
l’interno di un partito che dovreb-
be puntare a raccogliere il consen-
so di tutto l’elettorato, sarebbe
altrettanto normale sfidarsi per
ottenere la supremazia ed accet-
tare la sconfitta come l’espressione
di una maggioranza che può e de-
ve decidere che strada seguire,
prenderne atto, sostenere il vinci-
tore e semmai prepararsi a sfidar-
lo di nuovo la volta successiva.
Sarebbe altrettanto normale ac-
cettare la sconfitta da parte di tut-
ti i partiti nei confronti di chi vin-
ce le elezioni e può e deve
governare, in quella che è la mas-
S
sima espressione di una democra-
zia dell’alternanza.
Il problema è che non siamo
una democrazia normale, siamo
un Paese in cui un sistema fram-
mentato, dove ogni fiato fa so-
stanza, porta ogni pseudo-politi-
co a credersi fondamentale, a
raschiare il fondo del barile per
ottenere il minimo consenso in-
dispensabile ad ottenere l’ago-
gnata poltrona purchessia. Per
fare questo non serve puntare al-
la maggioranza dell’elettorato,
basta un qualsiasi gruppuscolo
di persone, una lobby, una mini-
casta sufficiente a raggiungere
quella briciola di consenso neces-
saria all’elezione dei singoli o an-
che solo all’inserimento nella lista
bloccata. E da lì è un attimo pas-
sare dalla ricerca di consenso
all’elargizione di favori. Che ci
vuole? Basta promettere di favo-
rire il gruppuscolo di riferimento,
naturalmente a spese del resto del
popolo, maggioritario, silenzioso
finché dura, ma soprattutto non
organizzato per opporsi a questo
andazzo che è il brodo di coltura
ideale di corruzione e spreco di
denaro pubblico.
Ebbene, finora il giovin Matteo
ci sta dimostrando con onore che
si può essere normali anche in un
Paese malato. Se resiste alla sirene,
davvero complimenti.
BARBARA DI SALVO
La totale assenza
di politica industriale
è la causa principale
della crisi italiana
L’OPINIONE delle Libertà
GIOVEDÌ 6 DICEMBRE 2012
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