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ESTERI
II
Cronacadi unanotte nel quartier generale delGop
di
STEFANO MAGNI
t’s over” è finita. È il laconico
commento che si diffonde,
mestamente, quando arriva la no-
tizia che Barack Obama ha vinto in
Ohio, lo stato chiave di queste ele-
zioni. Nella sala riunione dell’Ame-
ricans for Tax Reform, la potente
lobby anti-tasse, fondata e guidata
da Grover Norquist, i militanti re-
pubblicani e gli intellettuali liberisti
se ne vanno con la coda fra le gam-
be. La speranza per una vittoria di
Mitt Romney è svanita minuto do-
po minuto. A dire il vero, l’ottimi-
smo non ha mai caratterizzato que-
sti repubblicani riunitisi nell’Atr per
assistere alla lunga notte elettorale.
«
Sono pessimista. Credo proprio
che Obama verrà riconfermato» –
ci dice subito Hadley Heath, una
brillante e bella ragazza conserva-
trice, analista politica dell’Indepen-
dent Women’s Forum. E ce lo dice
mentre non ci sono che pochi exit
polls. Questa impressione si conso-
lida durante la serata. Il primo col-
po duro arriva alle 10 di sera, quan-
do si sa che il presidente ha vinto
la Pennsylvania. Ma era prevedibile.
Solo Dick Morris e qualche altro
opinion maker
conservatore pensa-
va di poter ribaltare le sorti dello
stato democratico dove i nordisti
vinsero la guerra nella battaglia di
Gettysburg. Un colpo ancora più
duro arriva pochi minuti dopo: an-
che il New Hampshire è perduto.
Non si trattava di una roccaforte
del Gop, sicuramente, ma era un
barometro” secondo analisti ed
esponenti del partito dell’elefantino.
Se si fosse vinto nel New Hampshi-
re, si diceva prima del voto, voleva
dire che Romney avrebbe potuto
vincere ovunque. Ma tutti gli occhi
erano puntati sulla Florida. Dove
ci si attendeva una vittoria rapida
del candidato repubblicano. Ma che
invece restava inchiodata su un lo-
gorante testa-a-testa. Come una fi-
nale di calcio che finisce ai rigori.
«
Sono molto preoccupato per quel-
I
lo che sta avvenendo laggiù – ci
confida Edward Hudgins, della
Atlas Society, un think tank che
promuove la filosofia di Ayn Rand
(
egoismo razionale e libero merca-
to) – se le cose fossero andate per
il verso giusto, Romney avrebbe già
vinto da un pezzo. Il fatto che sia
ancora così impantanato in un te-
sta-a-testa è un brutto sintomo». A
causa della Florida, tutte le buone
notizie (dal punto di vista repubbli-
cano) passano in secondo piano.
Quasi nessuno si accorge che il Gop
ha riconfermato la sua maggioranza
alla Camera. E pochi gioiscono nel
vedere tutta l’immensa regione della
cintura biblica” tingersi di rosso,
il colore dei Repubblicani. Sono
successi che vengono dati per scon-
tati. Gli occhi sono già puntati
sull’Ohio. Anche la North Carolina
si colora di rosso. Parte qualche ap-
plauso di consolazione. La speranza
si riaccende: se la Florida tiene,
l’Ohio viene conquistato, Virginia
e Colorado vengono espugnati,
Romney ce la può ancora fare. Ma
ci si rende conto, sin da subito, che
è una missione impossibile: dovreb-
be verificarsi una vittoria in 5 stati
in bilico su 5. E i numeri non ci so-
no. L’Ohio dà il colpo di grazia. La
partita è chiusa: Obama vince in
quello stato per meno di un punto
percentuale, ma vince le elezioni
matematicamente, assicurandosi un
numero di Grandi Elettori superiore
alla fatidica soglia dei 270. C’è spa-
zio per un epilogo surreale: da
Fox
News
arriva la notizia che l’Ohio,
forse, è stato richiamato. Che non
è affatto stata assegnata la vittoria
al presidente in carica. La sala torna
a riempirsi, torna qualche sorriso,
qualcuno salta di gioia. Ma è una
breve illusione che scoppia subito
come una bolla di sapone. Lascian-
do spazio solo alla tristezza dei vo-
lontari che impilano le sedie e spa-
recchiano i banchetti. Un solo
uomo, palesemente ubriaco, festeg-
gia in mezzo alla folla silente. «Ab-
biamo altri 4 anni! Voi dovete es-
sere felici! Abbiamo un grande
presidente! Gli faranno un monu-
mento nel National Mall!», vaneg-
gia. Un anziano lo manda a quel
paese. E la scena finisce subito. Ci
dicono che fosse realmente un mi-
litante democratico, venuto apposta
a rovinare la “festa”.
La sede dell’Americans for Tax
Reform, in pieno centro di Washin-
gton Dc, diventa un’isola di silen-
ziosa tristezza in mezzo ad una città
in trionfo. Qui nella capitale il pre-
sidente Obama è stato rieletto con
una percentuale bulgara: il 91,4%
dei voti. Le strade si trasformano
subito in una parata della vittoria.
Una parata dei progressisti, che
scampanellano sulle loro biciclette:
colonne dopo colonne di biciclette,
eco-compatibili e sostenibili, mon-
tate da ragazzi e ragazze di età uni-
versitaria. O da uomini di mezza
età che si sentono giovani dentro.
Due afro-americani, davanti a un
supermercato improvvisano una
danza tribale in onore del presiden-
te venuto dal Kenya. Tutto attorno
a loro, studenti e signore dall’aria
sessantottina cercano di seguire il
loro ritmo e li applaudono. Partono
i fuochi d’artificio. Fino alle ore pic-
cole, la città è tutto un risuonar di
clacson e cori da stadio. Pare quasi
di aver vinto una guerra. E per mol-
ti americani di Washington è così:
la loro America, fatta di impieghi
pubblici, servizi sociali, università
e studi d’avvocati ha prevalso sul-
l’altra America, quella “cattiva” del-
le province conservatrici, religiose
e amanti della libera iniziativa, che
assediano le grandi città.
Eppure quale è la vittoria? I suc-
cessi invisibili dei Repubblicani si
chiamano: maggioranza alla Came-
ra, potere di ostruzionismo al Se-
nato e un voto popolare (misurato
su tutti i cittadini americani, indi-
pendentemente dagli stati) diviso
letteralmente a metà. Barack Oba-
ma è ancora un presidente dimez-
zato, come dopo le elezioni del
2010.
Controlla l’esecutivo, ma può
trovare una barriera impassabile nel
Congresso. Numericamente parlan-
do, ha dimostrato di essere scelto
solo dalla metà degli americani che
sono andati a votare. La prossima
grande prova, per lui, si chiama “fi-
scal cliff”, letteralmente: abisso fi-
scale, il momento in cui i conti
pubblici esigeranno un innalzamen-
to delle tasse, o un innalzamento
del tetto del debito consentito (il
debt ceiling”). Su questo i Repub-
blicani promettono battaglia. E il
rinnovato presidente non ha ancora
i numeri per vincerla senza scende-
re a costosi compromessi.
Dalla parte degli sconfitti, si im-
pone una nuova revisione. Il Partito
repubblicano si è già profondamen-
te rinnovato negli ultimi 4 anni.
Grazie al movimento Tea Party, ha
riadottato un programma per limi-
tare il potere dello stato, coerente-
mente con la dottrina del conserva-
torismo contemporaneo. Tuttavia,
in Romney, il Gop non ha saputo
trovare un portavoce sufficiente-
mente convincente di questa filoso-
fia. Tanto è vero che in Ohio i Re-
pubblicani hanno perso anche a
causa del voto libertario, che si è
orientato su Gary Johnson (Liber-
tarian Party) sottraendo voti pre-
ziosi al loro candidato.
«
Mitt Romney ha speso molte
delle sue energie per spiegare alla
gente quanto fosse genuinamente
convinto di ridurre il potere dello
Stato – ci spiega Daniel Mitchell,
economista del think tank libertario
Cato Institute – quando sei posto
di fronte alla scelta fra uno statalista
ed un anti-statalista, ma dai il voto
a un terzo partito, è ovvio che la
tua è un’azione di protesta e di sfi-
ducia. Io penso che Romney, fin
dall’inizio, non fosse un candidato
forte. Per esempio, non ha mai po-
tuto attaccare fino in fondo Obama
sulla riforma sanitaria, perché lui
stesso ne ha promossa una simile
nel Massachusetts, quando ne era
il governatore». Ma quali lezioni
può apprendere il Partito repubbli-
cano da questa sconfitta? «Un lun-
go periodo di prognosi. Ma sono
grandi le possibilità di vittoria nel
2016,
perché ci sono potenzialmen-
te degli ottimi candidati nella nuova
generazione, come Rand Paul, Mar-
co Rubio, lo stesso Paul Ryan.
Romney dobbiamo giudicarlo come
l’ultimo di una generazione di po-
litici dell’
establishment
dell’era
Bush, una classe dirigente che, a suo
tempo, ha accettato lo statalismo e
non ha difeso la libertà individuale.
I nuovi potenziali candidati, invece,
sono tutti molto più coerenti e mol-
to più simili a Ronald Reagan».
K
Mitt ROMNEY
segue dalla prima
Barack Obama e
il resto del mondo
È probabile, allora, che dopo le elezioni sia
proprio Bersani a poter guidare il futuro go-
verno in quanto leader del partito più votato.
Ma lo potrà fare solo da primus inter pares,
cioè in comproprietà con una maggioranza
di larga coalizione inzeppata di tecnici e su-
bordinata alle indicazioni del Quirinale con-
fermato per l’occasione nel rappresentante
italiano dei poteri sovranazionali europei. Alla
continuità espressa dalla rielezione di Obama
si intreccia la continuità di una politica ita-
liana obbligata a camminare lungo la strada
della continuità imposta dai poteri sovrana-
zionali europei. E chi pensa che questo rigido
spartito possa essere modificato dalla fine del
settennato presidenziale di Napolitano e dalla
eventualità che venga eletto un Capo dello
stato meno condizionato dal mito europeista
di quello attuale, sbaglia di grosso. Il succes-
sore di Napolitano (non a caso si parla di
Mario Monti) sarà espressione del tipo di
continuità indicata. Continuità che potrà es-
sere interrotta solo dalla ripresa dell’economia
internazionale o da un qualche evento trau-
matico capace di rimettere tutto in gioco.
ARTURO DIACONALE
Addio all’America
che conosciamo
(...)
persino più di McCain (distanziato ri-
spettivamente di 36 e di 27 punti), mentre
ha mantenuto un ampio margine nel voto
dei giovani (24 punti contro i 34 del 2008).
La forza di Obama, grazie al colore della sua
pelle, sta nell’aver dato rappresentanza a una
parte di America che fino ad oggi era rimasta
divisa (troppo distanti tra loro giovani liberal,
afroamericani e ispanici) e lontana dalle urne
e che oggi, invece, si è risvegliata unita e mag-
gioritaria nel paese.
Ma sarebbe sbagliato mettere sotto processo
Romney.
Nel voto popolare ha recuperato molto (da
-7,3%
a -2,3%) e ha strappato a Obama
North Carolina e Indiana. Non era il candi-
dato perfetto, probabilmente non ha scaldato
i cuori e le menti della “Right Nation”, ma
se ci fosse riuscito avrebbe perso troppi voti
moderati e centristi, che invece ha in parte
recuperato.
Il tipico dramma della coperta troppo corta,
insomma.
Sfida tremenda che ha di fronte tutto il Gop:
come rappresentare la “Right Nation” e allo
stesso tempo aprirsi su temi quali l’immigra-
zione e i diritti civili?
Da oggi, insomma, l’America è un po’ meno
eccezionale”.
Da altri quattro anni di Obama alla Casa
Bianca possiamo aspettarci la prosecuzione
a tappe forzate del processo di “europeizza-
zione” degli Stati Uniti, una svolta storica.
FEDERICO PUNZI
Quanti imbucati
sul carro di Barack
(...),
spiega, ci sarebbe stato il rischio di «iso-
lazionismo» in politica estera.
A giudicare dai disastri combinati ai danni
dell’Europa dall’America democratica, dal
Kosovo fino alla recente crisi libica, forse non
sarebbe stato esattamente un male, ma tant’è.
Persino Annagrazia Calabria, coordinatrice
nazionale della Giovane Italia, italoamericana
per diritto di nascita, non fa affatto mistero
di aver votato per Barack alle elezioni del
2008.
Errori di gioventù che certo non rin-
nega oggi.
Agli italiani non piace mai perdere, nemmeno
per interposta persona.
Se le cose si mettono male, dunque, meglio
cambiare badoglianamente bandiera.
LUCA PAUTASSO
K
Paul RYAN
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GIOVEDÌ 8 NOVEMBRE 2012
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