II
POLITICA
II
Quell’inutile (e dannoso) federalismo all’italiana
di
GENNARO SANGIULIANO
Pubblichiamo integralmente le
conclusioni del saggio “L’inutile
federalismo. Il caso Italia e i mo-
delli di autonomia federale” (Utet,
Torino, pagg. 150, € 10,00), scrit-
to da Gennaro Sangiuliano ed ar-
ricchito da una prefazione di San-
dro Staiano. Vicedirettore del Tg1
(
e un passato a L’Indipendente, al
Roma, al Borghese e a Libero),
Sangiuliano è impegnato anche
nell’attività accademica in materie
economico-giuridiche e insegna
presso la facoltà di Economia de
La Sapienza e presso la facoltà di
Giurisprudenza della Lumsa.
he giudizio dare dei prov-
vedimenti del nuovo go-
verno?», così, con una domanda
molto elementare per un comples-
so economista, Vilfredo Pareto
iniziava uno dei suoi articoli di
commento sulla situazione eco-
nomica dei primi del Novecento.
Lo studioso italiano, autore del
Coursd’économie
politique
(1896),
giudicato da tutti i posteri
un classico del pensiero economi-
co, scriveva su «L’Economista»,
rivista da lui animata e che rical-
cava il modello britannico
dell’«Economist» e da queste co-
lonne amava associare alla rigida
analisi scientifi ca l’attività di po-
lemista e commentatore dei feno-
meni sociali. Forse è il caso di
porsi la stessa domanda di fronte
all’ipotesi di un federalismo ita-
liano. Sempre Pareto, passando
dalla teoria alla pratica già in un
altro saggio, L’Italie économique,
apparso nel 1891 sulla «Revue
des deux mondes», aveva parlato
di confusione delle idee, dissolu-
zione dei partiti, perché «gli inte-
ressi materiali avevano preso il
sopravvento». Pareto paragonò il
sistema politico italiano a quello
«
tristément célebre de Walpole»
nell’Inghilterra settecentesca.
Conclusioni che colpirono il
«
C
collega austriaco Joseph A.
Schumpeter che osservò come
l’economista italiano con qualche
eccesso «non vedesse altro che in-
competenza e corruzione», anche
se gli riconobbe di criticare «con
imparzialità feroce i governi che
si succedevano», coerente con la
sua visione di ultraliberale.
Sulla rivista Il Regno, Giusep-
pe Prezzolini presenta le teorie pa-
retiane e il suo giudizio sulla clas-
se dirigente italiana, in un lungo
articolo L’aristocrazia dei briganti
(1903),
rappresenta una delle pri-
me volte in cui il termine “casta”
è associato alla politica. «Noi ci
troviamo d’accordo con lui; nel
disprezzo cioè», scrive il fondato-
re della Voce, «per tutta quella
parte di classe dominatrice che
paurosa, imbelle, atrofizzata per
l’inerzia… suicida di paura». A
Prezzolini rispose lo stesso Pareto
con un altro scritto, La borghesia
può risorgere? L’aristocrazia diri-
gente non è la risultante di un si-
stema di valori, basati su qualità
morali ma è solo un gruppo di
potere che in quel momento sto-
rico dispone degli strumenti per
imporsi.
Nell’elaborare il tema cruciale
di ogni teoria politica, quello del
rapporto fra individuo e Stato,
Pareto sposa il realismo storico,
sulla linea di Machiavelli, Tocque-
ville ma anche di Croce, temendo
la dittatura della maggioranza che
spesso sfocia nella plutocrazia de-
magogica. Nel
Trattato di socio-
logia generale
esamina le dinami-
che che determinano la crescita
del debito pubblico per conclude-
re che esso lievita quando il go-
verno è instabile, sede di interessi
contrastanti, per cui pur di regge-
re è costretto a un continuo scam-
bio di favori con i gruppi sociali.
Quando il corpo politico è
compromesso, «si può tagliare
sicché si vuole la gramigna ma es-
sa ritorna a crescere rigogliosa se
rimane incolume la radice». Di
qui il timore che la democrazia
possa trasformarsi in «una feuda-
lità in gran parte economica», do-
ve è marcata la tendenza a gover-
nare con l’astuzia. Questo lungo
riferimento a Pareto – come ai vo-
ciani – apparentemente fuori luo-
go, vuole richiamare il senso del
federalismo italiano, forse una ri-
sposta impropria a una crisi di-
versa. L’Italia è un paese con con-
dizioni geografi che svantaggiate:
ha infatti un’estensione di 301mi-
la chilometri quadrati. Per avere
delle proporzioni di raffronto ba-
sti pensare che la Spagna si esten-
de per 506mila kmq, la Francia
per 675mila kmq. La Gran Bre-
tagna è di poco più piccola del-
l’Italia, 229 kmq, ma ha meno
abitanti. Dunque, l’Italia è un
Paese territorialmente modesto,
più piccolo di quelli con cui ge-
neralmente si raffronta e con una
popolazione superiore, quindi più
densamente abitato. Inoltre, ha
ampie zone di territorio montuo-
so, non ha grandi pianure o corsi
d’acqua, non dispone di materie
prime. Solo una parte del suo ter-
ritorio, il Nord, è vicino all’Euro-
pa più ricca.
Quando l’Italia si costituisce
come Stato unitario, appare in
una condizione di svantaggio sto-
rico. Francia, Spagna e Gran Bre-
tagna sono stati unitari già da
molto tempo. Germania e Austria,
due imperi, possono godere di
una forte coesione culturale. L’Ita-
lia non ha un’amministrazione
pubblica, non ha un’istruzione na-
zionale, non ha una classe diri-
gente nazionale, ma diversi gruppi
dirigenti ancora regionali nella
mentalità.
È vero, l’Italia ha un’identità
linguistica e culturale, quella di
Dante, Petrarca, Foscolo e Man-
zoni, alimentata dalle idee risor-
gimentali, ma tutto ciò appartiene
a una ristretta cerchia, a un’élite
fatta di poche migliaia di intellet-
tuali. L’Italia mette insieme espe-
rienze molto diverse, il Nord trae
effetti positivi dalla tradizione
asburgica che lo ha dominato,
dall’antico spirito fi nanziario e
commerciale di Genova e Venezia.
All’atto dell’unità Piemonte, Lom-
bardia, Liguria e Veneto produ-
cono i tre-quarti del reddito na-
zionale. Gli altri Stati occidentali
non solo hanno un vantaggio di
qualche secolo nella struttura uni-
taria, ma hanno dalla loro parte
lo sfruttamento di imperi colonia-
li. La Gran Bretagna ancora oggi
mette a frutto l’essere un impero
linguistico. Nel 1861 l’Italia ha
un’economia prevalentemente
agricola; si aggiunga che una gran
parte della popolazione è analfa-
beta e ciò incide pesantemente
sulle capacità di sviluppo econo-
mico. Solo il 2% della popolazio-
ne parla italiano, il resto parla il
dialetto.
Al primo censimento si regi-
strerà un analfabetismo dell’80%.
Su 25 milioni di italiani, infatti,
solo 893.000 sanno leggere e scri-
vere. Sempre nel 1861 in Italia ci
sono solo 2.521 km di ferrovie,
in Francia 4.000 km, in Germania
11.000
km, nel Regno Unito
16.666
km. Nel 1871 in Inghil-
terra solo il 35% della popolazio-
ne lavora in agricoltura, scenderà
al 25% nel 1910. In Italia nello
stesso periodo gli addetti all’agri-
coltura sono circa il 70% della
forza lavoro, quelli all’industria
il 21%.
Tutte queste premesse, geografi
che, economiche e soprattutto sto-
riche, non possono non essere te-
nute in conto quando qualcuno
parla di federalismo italiano.
Il giurista Carl Schmitt ritiene
che la terra, intesa come legame
al luogo delle proprie origini, sia
la «madre del diritto» e al riguar-
do parla di nomos della terra. «Il
nomos è pertanto la forma imme-
diata nella quale si rende spazial-
mente visibile l’ordinamento po-
litico e sociale di un popolo, la
prima misurazione e divisione del
pascolo, vale a dire l’occupazione
di terra e l’ordinamento concreto
che in essa è contenuto e da esso
deriva».
Gennaro Sangiuliano, “L’inutile
federalismo. Il caso Italia e i mo-
delli di autonomia federale”,
(
Utet, Torino, pagg. 150, € 10,00)
segue dalla prima
MarioMonti tra
ragione e ambizione
(...)
Con la seconda, viceversa, Monti di-
venta lo sfidante sia di Silvio Berlusconi che
di Pier Luigi Bersani, si trasforma in un sog-
getto politico alla pari degli altri e perde
automaticamente la sua caratteristica di
tecnico super partes a cui affidare le sorti
del paese e delle istituzioni in nome del-
l’emergenza.
Non ci sono tifosi per la prima soluzione.
Ce ne sono, viceversa, tantissimi per la se-
conda. Quelli che si oppongono al ritorno
della logica bipolare e temono di venire
schiacciati dallo scontro tra Bersani e Ber-
lusconi, tirano per la giacca il Professore
sollecitandolo a scendere in campo per ri-
creare le condizioni del quadro politico del-
la Prima Repubblica. E quelli che, con il
passaggio di Monti dall’empireo della ter-
zietà al livello terrestre della normale lotta
politica, sperano di poterlo tagliare facil-
mente fuori sia dalla possibile successione
a se stesso a Palazzo Chigi, sia dalla partita
per la Presidenza della Repubblica.
Questo significa che Monti possa decidere
sul serio di delegare ad un altro tecnico il
compito di gestire il governo elettorale e di
puntare a sparigliare le carte del prossimo
voto politico?
Il dilemma è forte. Il Professore non sembra
essere un personaggio umorale e da l’im-
pressione di calcolare sempre con grande
attenzione le proprie scelte. Ma troppo
spesso l’ambizione ha la meglio sulla ra-
zionalità. L’importante, comunque, è che
la decisione in un senso o nell’altro arrivi
presto. Il paese non può attendere.
ARTURO DIACONALE
Le sentenze
e l’ipocrisia
(...)
Ma la domanda a quelli del “Fatto”,
a Padellaro, Salvatore Borsellino, la Mura
e persino Ingroia, è semplice: se si usano
gli stessi metodi di coloro che criticate
perché mai la gente dovrebbe ritenervi
più credibili? Le sentenze che si rispettano
sono solo quelle che danneggiano l’avver-
sario? La demagogia è solo quella di Ber-
lusconi? Se almeno si avesse il coraggio
di rispondere affermativamente senza na-
scondersi dietro un dito, dietro la stampa
estera, dietro lo spread, dietro l’amor di
patria o la carità della stessa, già starem-
mo un pezzo avanti. Ma il problema è che
non c’è neanche questa onestà intellettua-
le da Marchese de Grillo («io so’ io e
voi...»). No, la sinistra pretende di impor-
re la propria visione ideologica spesso di-
storta come verità rivelata. La Consulta
è un’istituzione ma se non accontenta i
nostri desiderata si scende in piazza come
contro un Berlusconi qualsiasi. L’ipocrisia
deve essere bandita dalla politica, ma se
si deve salvare la baracca di Di Pietro al-
lora l’assunto non vale. Comportandosi
così non c’è il problema dell’anti-politica.
Ad essere “anti se stessa” la politica ci
pensa benissimo da sola.
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MERCOLEDÌ 12 DICEMBRE 2012
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