II
ESTERI
II
Ancora troppi dubbi sulle dimissioni di Petraeus
di
STEFANO MAGNI
oche certezze e troppi dubbi cir-
colano sulle dimissioni dell’ex
generale David Petraeus dalla ca-
rica di direttore della Cia.
La certezza è la causa immedia-
ta delle dimissioni. Non ci piove, ci
sono le prove: da almeno un anno,
l’Fbi, partendo dall’indagine su un
caso di stalking, ha scoperto una
sua relazione extraconiugale di Pe-
traeus con Paula Broadwell, uffi-
ciale riservista e autrice di “All In”,
biografia (agiografica) del generale.
Paula era la stalker. La sua vittima,
Jill Kelley, era a sua volta sospettata
di avere una relazione con il diret-
tore della Cia. Petraeus si è dunque
trovato in mezzo ad un litigio fra
due “amanti” (una ammessa, l’altra
solo presunta) e con un matrimo-
nio, che durava da 37 anni, com-
pletamente rovinato. Bill Clinton
non ha perso la poltrona presiden-
ziale a causa della relazione con
Monica Lewinski. Ma per il diret-
tore della Cia, una relazioni coniu-
gale è, se possibile, ancora più pe-
ricolosa, perché lo espone a ricatti
che possono mettere a repentaglio
la sicurezza nazionale. Questa, al-
meno, è la spiegazione ufficiale. Se-
condo una spiegazione non ufficia-
le, ma caratteriale, Petraeus non è
Clinton, è un militare e non un po-
litico. E, tutto d’un pezzo qual è,
ha deciso di chiamarsi fuori.
Fin qui abbiamo una certezza
sulle cause immediate delle dimis-
sioni. Ma sotto potrebbe esserci al-
tro. Non dovrebbe stupire il tem-
P
pismo delle dimissioni rispetto alla
data delle elezioni. Quando è in
gioco la sicurezza nazionale, l’azio-
ne deve essere bi-partisan, per cui
è comprensibile che lo scandalo sia
emerso a voto già concluso. Lascia
molti dubbi, invece, il tempismo ri-
spetto ad un altro evento impor-
tante: l’attacco al consolato di Ben-
gasi dell’11 settembre 2012, in cui
è stato assassinato l’ambasciatore
statunitense in Libia. La Cia è dop-
piamente coinvolta: per non aver
previsto i fatti e per essere stata pre-
sente sul campo durante l’assalto.
Sono tanti gli interrogativi senza
risposta riguardo ai tragici eventi
di due mesi fa. Lo storico Victor
Davis Hanson prova ad elencarli
tutti nel suo ultimo articolo sulla
National Review: «Perché c’era un
consolato americano a Bengasi,
considerando il fatto che molti Pae-
si avevano addirittura chiuso le lo-
ro ambasciate a Tripoli? Perché
c’era una presenza così massiccia
della Cia nelle vicinanze? Cosa sta-
vano facendo, perché e per chi?
Perché l’ambasciatore riteneva ne-
cessaria più sicurezza, quando
c’erano così tanti agenti della Cia
dislocati a soli pochi minuti di di-
stanza? Qual era il ruolo di sicu-
rezza esercitato dalla sede della Cia
a protezione del consolato? E per-
ché tutto questo silenzio? Quali
erano, esattamente, i gruppi terro-
risti che hanno colpito il consolato,
avevano un programma particola-
re? Se sì, per cosa e per chi agiva-
no?»
Gli interrogativi che si pone Vic-
tor Davis Hanson fanno riflettere
anche su altre domande senza ri-
sposta, questa volta sulla stessa car-
riera di Petraeus. Il generale ha in-
fatti compiuto tutte le tappe di una
brillante carriera militare. Per finire
nel ruolo di un civile, nei panni del
direttore dell’agenzia di intelligence.
Petraeus, noto come uno dei più in-
tellettuali (laureato ed esperto di
Relazioni Internazionali) ufficiali
statunitensi, si era distinto nella
guerra in Iraq, nel 2003, come co-
mandante della 101^ divisione
d’assalto aereo. Guidò lui l’ampia
manovra di aggiramento sul fianco
destro dell’esercito iracheno, che si
concluse vittoriosamente a Najaf,
ultimo scontro con l’esercito di
Saddam prima della presa di Ba-
ghdad. Ma più che come coman-
dante di operazioni convenzionali,
David Petraeus si è fatto un nome
per la sua strategia di contro-insur-
rezione, ispirata ai metodi impiegati
dai francesi nell’ultima fase della
guerra di Algeria. Sua idea centrale
era quella di: «Servire e rendere si-
cura la popolazione – come scrive-
va in un suo vecchio articolo per
la Heritage Foundation – Il terreno
decisivo per vincere una campagna
di contro-insurrezione non è un al-
tura o un ponte, come in una clas-
sica operazione militare, ma il “ter-
reno umano”. Devi capire la gente.
Sapere come funzionano le sue
strutture sociali, le tribù, gli elemen-
ti religiosi, i partiti politici, come
dovrebbe funzionare il sistema e
come invece funziona realmente».
Petraeus riuscì, in modo molto ef-
ficace, a separare Al Qaeda dalla
popolazione sunnita irachena. E
trasformò un pantano, che durava
ormai da tre anni, in un successo.
Nel 2008, dopo un anno e mezzo
di cura Petraeus, la possibilità di
una guerra civile in Iraq era scon-
giurata e il Paese era già abbastan-
za stabilizzato da consentire un
onorevole disimpegno statunitense.
A questo punto ci si sarebbe attesi
una carriera del generale fino al
vertice degli Stati Maggiori Riuniti.
Il primo passo lo aveva già com-
piuto, con la promozione a coman-
dante del Centcom (il comando
Usa per il Medio Oriente allargato).
Ma l’ascesa si è fermata lì. Obama,
nel 2009, lo ha posto al comando
delle operazioni in Afghanistan, so-
stituendo Stanley McChrystal (a
causa dei suoi commenti sul presi-
dente). Ma anche l’esperienza af-
gana è durata poco. Perché è giun-
ta, a sorpresa, la sua nomina a nuo-
vo direttore della Cia, dopo la
cooptazione di Leon Panetta al Se-
gretariato della Difesa.
Sulla nomina di Petraeus alla
Cia sono circolate da subito due
versioni. Una cattiva: il presidente
democratico lo temeva come po-
tenziale rivale nelle elezioni del
2012
e mal sopportava le critiche
che gli stava muovendo sulla ge-
stione della guerra in Afghanistan.
Dunque lo avrebbe piazzato in una
posizione più sotto controllo. L’al-
tra versione è più benevola: proprio
grazie alla sua strategia di contro-
insurrezione, chi meglio di Petraeus
avrebbe saputo coordinare le ope-
razioni segrete contro gli jihadisti?
In ogni caso, proprio quando
l’eroe dell’Iraq era alla testa della
Cia, l’ambasciatore in Libia è sta-
to ucciso. Dai rapporti di prima
mano che iniziano ad emergere,
leggiamo che gli agenti Cia, così
come i militari, avrebbero voluto
intervenire, ma a loro è stato ne-
gato il permesso di agire. Sappia-
mo anche che, due settimane fa,
Petraeus era al Cairo. Sulle tracce
dei terroristi che hanno attaccato
il consolato e ucciso l’ambascia-
tore. C’è ancora molto da scopri-
re su quel che è avvenuto a Ben-
gasi lo scorso 11 settembre. E
moltissimo rimarrà irrisolto con
le dimissioni dell’ex direttore del-
la Cia. All’indomani dello scan-
dalo, è saltata la sua audizione
alla Camera, sul caso libico.
Lo scandalo sessuale
è la causa immediata
della fine della brillante
carriera del generale
Ma sono ancora tanti
i silenzi su come la Cia
e Obama hanno gestito
l’assalto di Bengasi
«
L’Italia ormai è americana,ma ancora non lo sa»
di
UMBERTO MUCCI
egli anni ’80 alcune grandi
personalità italiane e ameri-
cane leader nei rispettivi business
e protagonisti di importanti rap-
porti tra i due Paesi decisero di da-
re vita ad un club di alto prestigio
che incrementasse scambi di con-
tenuti, opportunità di sviluppo,
momenti di riflessione comune. Si
associarono grandi manager, im-
prenditori di successo e pensatori
di grande respiro internazionale
che rigorosamente a porte chiuse
iniziarono a promuovere le possi-
bilità di collaborazione, dando vita
al Consiglio per le Relazioni tra
Italia e Usa. Tra le molte attività,
il principale evento italiano è l’an-
nuale Workshop di Venezia, men-
tre quello americano è la confe-
renza che si tiene ogni due anni a
New York, il prossimo dei quali è
in programma per la metà del
prossimo dicembre. Oggi il Con-
siglio promuove anche opportu-
nità di crescita per i giovani leader
dei due Paesi ed ha come punti di
riferimento rispettivamente Sergio
Marchionne in Italia e David W.
Heleniak, Senior Advisor di Mor-
gan Stanley, in America. Respon-
sabile della comunicazione del
Consiglio è Dennis Redmont, sto-
rica figura del giornalismo ameri-
cano in Italia, docente, giornalista,
consulente in tema di comunica-
zione.
L’Opinione
lo ha incontrato
e lo ringrazia per la sua disponi-
bilità.
Mr. Redmont, lei è in Italia da di-
N
versi anni, nel corso dei quali ha
visto molti mutamenti del nostro
Paese. Tra le molte cose che ha fat-
to, è stato direttore dell’Associated
Press per l’Italia ed il Mediterra-
neo per ben 25 anni. Come sono
cambiati i rapporti fra Italia e Stati
Uniti - dal suo punto di vista - da
quando è qui?
I rapporti tra i due Stati sono
sempre stati ottimi, seppur costel-
lati da piccoli alti e bassi in rela-
zione al Presidente del Consiglio
di turno. Ci sono stati dei momen-
ti di crisi - ad esempio Sigonella,
il Cermis, il rapimento di Abu
Omar - ma tuttavia queste crisi so-
no state ricomposte rapidamente,
e i buoni rapporti sono proseguiti
costanti, direi con enfasi. Le criti-
che di qualche ambasciatore USA
hanno dato fastidio ad alcuni, ma
alla fine penso che siano state un
oggetto di stimolo per l’Italia.
Nel corso della sua permanenza
nel nostro Paese, a suo avviso si
può dire che l’Italia sia diventata
più o meno “americana”? E gli
USA sono diventati più “italiani”,
o al contrario?
A me sembra che l’Italia sia
diventata più americana, ma che
ancora non se ne renda conto. In
questi ultimi anni la società ita-
liana da un lato è diventata mul-
tietnica, fondamentalmente senza
accorgersene; dall’altro, tuttavia,
non ha adottato i metodi ameri-
cani (come le scuole, il lavoro, le
pari opportunità) per assorbirli
appieno questa forza nel tessuto
sociale.
Cos’è il Consiglio per le Relazioni
tra Italia e Stati Uniti, e come ope-
ra?
Il Consiglio Italia-Usa è un’as-
sociazione privata e bilaterale fon-
data nel 1983 da David Rockfeller
e dall’Avvocato Gianni Agnelli. Si
occupa di promuovere e sviluppa-
re i rapporti tra i due Paesi, con
particolare attenzione su economia
e finanza. L’idea che stava alla ba-
se era quella di rinforzare i legami
ufficiali - cioè quelli diplomatici e
accademici - e che le “blue chips
companies”, le banche e il settore
dei servizi dovessero fare la loro
parte, pur restando in una dimen-
sione completamente apolitica. Il
Consiglio, tra le altre cose, orga-
nizza conferenze, incontri e wor-
kshop a cui hanno partecipato
personalità come Joe Biden e Hen-
ry Kissinger, nonché grandi im-
prenditori italiani, europei e ame-
ricani.
Abbiamo assistito, come ogni
quattro anni, alla dimostrazione
di una straordinaria capacità di
democrazia e innovazione nel cor-
so delle campagne elettorali per le
recenti elezioni americane tenutesi
il 6 novembre. Quali sono gli ele-
menti comunicativi, tecnici e pro-
mozionali che potrebbero essere
trapiantati nel nostro Paese, e qua-
li invece quelli così tipicamente
americani da non essere applicati
anche qui?
Per quanto riguarda gli elemen-
ti comunicativi, mi sembra che in
Italia non ci siano ancora la com-
petenza, la capacità o più sempli-
cemente la volontà di sfruttare al
massimo i social media. Sia chiaro:
questi strumenti non sono ancora
decisivi per vincere un’elezione,
ma hanno ormai assunto un’im-
portanza capitale nella gestione
tecnica e promozionale di una
campagna, e in questo senso il te-
am di Obama ha svolto un ottimo
lavoro (basti pensare alla famosa
foto dell’abbraccio con Michelle,
la più condivisa nella storia dei so-
cial network). Sugli aspetti tipica-
mente americani, invece, credo che
sia difficile trapiantare la potenza
di fuoco che è stata dispiegata su
televisioni e mainstream media,
anche per un discorso economico-
legale. I due candidati, secondo
quanto dimostrato da alcune so-
cietà di ricerca, hanno prodotto
nell’insieme più di un milione di
spot pubblicitari, con un incre-
mento del 50% rispetto alle scorse
elezioni, che già erano state “pe-
santi” sotto questo punto di vista.
Infine, si è trattata anche di una
campagna molto aggressiva, con
molti colpi bassi, polemiche e ac-
cuse reciproche tra gli sfidanti. Ec-
co, mi pare che questo aspetto sia
invece applicato alla perfezione
dai politici italiani.
Per concludere, perché gli ameri-
cani amano tanto l’Italia, nono-
stante tutti i nostri guai?
Per gli americani l’Italia è la
culla della loro cultura e civiltà. È
quasi come la Gran Bretagna, ma
con più emozione nella relazione.
Gli artisti e i personaggi storici ita-
liani sono delle icone, e tutta la
cultura italiana è amata - a partire
dal cibo per arrivare a storia e let-
teratura. Dietro alla creatività cul-
turale, tuttavia, gli italiani non so-
no mai riusciti a mostrare la loro
potenza manifatturiera all’opinio-
ne pubblica internazionale.
K
Dennis REDMONT
Intervista a Dennis
Redmont, responsabile
per la comunicazione
del Consiglio
per le Relazioni
tra Italia e Stati Uniti:
«
Per gli americani l’Italia
è la culla della civiltà»
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 13 NOVEMBRE 2012
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