inirò quello che ho inizia-
to”, questa la promessa di
Barack Obama affidata ad una e-
mail e spedita ai suoi elettori. A
una settimana dalla sua rielezione,
l’inquilino della Casa Bianca deve
fare i conti con le questioni lascia-
te in sospeso. Primo fra tutti lo
zoccolo duro medio orientale. A
scuotere la vittoria del candidato
democratico lo spettro della guer-
ra civile in Siria e la questione nu-
cleare iraniana. Spenti i riflettori
sulla lunga notte americana, sce-
mati gli entusiasmi post-elettorali,
Obama deve fare i conti con la re-
altà. Sono lontani i fasti del 2008,
quando l’allora senatore dell’Illi-
nois aveva incantato l’America
con il suo slogan “Yes, We Can”,
alimentando la speranza in un
mondo nuovo. Celebre il discorso
del 2009 al Cairo, dove invitava
il mondo arabo-islamico a dare vi-
ta ad «un nuovo inizio tra gli Stati
Uniti ed i musulmani, basato sul
mutuo interesse e sul reciproco ri-
spetto». L’orizzonte obamiano al-
lora sembrava reggersi sulla col-
laborazione, sul dialogo e sulla
speranza che un nuovo modo di
vedere e interpretare lo scenario
islamico fosse possibile. Il ritiro
delle truppe in Afghanistan, la lot-
ta al terrorismo, il sostegno per la
ricostruzione dell’Iraq e il conse-
guente ritiro delle forze dal Paese,
la ricerca pacifica di una soluzione
F
al conflitto israelo-palestinese e il
dialogo con l’Iran in merito al suo
programma nucleare. Dopo quat-
tro anni il fascino intrinseco del
suo messaggio di pace si è atte-
nuato, se non addirittura dissolto
soprattutto con l’avvento di nuove
crisi da fronteggiare: l’acuirsi delle
violenze in Siria, le rivolte in Nord
Africa con la caduta di regimi
trentennali e il cambio della guar-
dia in Egitto, in Libia e in Tunisia.
Non sempre la risposta dell’am-
ministrazione statunitense si è ri-
velata soddisfacente e coerente:
positivamente orientata in Egitto
e in Tunisia, esitante in Siria, am-
bigua in Bahrein, opaca in Yemen
e ridotta all’osso, se non addirit-
tura assente, sulla questione pale-
stinese. Obama vince, ma non
stravince. Convince più dello sfi-
dante repubblicano, ma non egua-
glia il trionfo di quattro anni pri-
ma. Il nodo iraniano è senza
dubbio la sfida più temibile per gli
equilibri dell’intera regione. Per
ora gli Usa si sono limitati ad in-
fliggere sanzioni contro il regime
di Teheran, piegando l’economia
iraniana, ma non si capisce fin do-
ve si spingerà il processo di svi-
luppo nucleare. Tra le priorità del
neo eletto presidente c’è anche la
Siria, che attende una risposta
concreta. Pertanto, se la vittoria
del democratico garantisce una
continuità in politica estera (scon-
giurato per ora un attacco militare
contro l’Iran), dall’altra, non im-
plica una svolta decisiva nella ri-
soluzione della crisi siriana. Non
è sufficiente convincere il Consi-
glio di Sicurezza Onu, senza prima
cercare un punto di contatto con
Russia e Cina. Ma neanche forza-
re la mano ed essere più duri verso
il regime di Assad. Quindi? Nuova
elezione, vecchia politica. Una so-
luzione definitiva alla crisi siriana
di fatto non esiste e gli Stati Uniti
non sembrano, per il momento,
pronti ad abbandonare la strada
della prudenza.
PAMELA SCHIRRU
II
ESTERI
II
Quella voglia secessione dalla nazione di Obama
di
STEFANO MAGNI
na settimana dopo la vittoria
di Barack Obama, decine di
migliaia di cittadini di due stati ame-
ricani, il Texas e la Louisiana, non
ce la fanno più a rimanere nell’Unio-
ne ed hanno espresso il loro dissenso
con una petizione inviata alla Casa
Bianca. Chiedono la secessione. Non
sono i soli: anche minoranze ben vi-
sibili in Montana, North Dakota,
Indiana, Mississippi, Kentucky,
North Carolina, Alabama, Florida,
Georgia, New Jersey, Colorado,
Oregon, NewYork, Arizona, Arkan-
sas, California, Illinois, Michigan,
Missouri, South Carolina, Tennessee,
Virginia, Wisconsin, Ohio, Kansas,
West Virginia, Nebraska, Utah, Ala-
ska, Pennsylvania, Wyoming, Okla-
homa, Nevada e Delaware hanno
promosso iniziative analoghe. Non
raggiungendo i numeri delle firme
sulle petizioni di Texas e Louisiana,
ma lanciando un segnale chiaro: “ci
siamo anche noi, non siamo tutti
parte di una nazione per Obama”.
L’iniziativa, è bene ribadirlo, è
partita dal Texas. La sua petizione
secessionista avrebbe dovuto rag-
giungere le 25mila firme per ottene-
re (entro 30 giorni) una risposta
pubblica da parte del presidente. Ne
ha raggiunte 80mila in una settima-
na e il numero continua a crescere.
Nel testo della petizione le ragioni
del Texas sono esposte nero su bian-
co, con estrema lucidità: «Gli Stati
Uniti continuano a soffrire le diffi-
coltà economiche derivanti dalla ne-
gligenza del governo federale di ri-
U
formare la spesa interna ed estera.
I cittadini degli Stati Uniti soffrono
di abusi evidenti dei loro diritti, co-
me il NDAA (Legge per la Difesa
Nazionale, sotto accusa perché pre-
scrive detenzioni prive di termine
anche per prigionieri non accusati
e non condannati dalla magistratu-
ra, ndr), il TSA (Legge per la Sicu-
rezza sui Trasporti, ndr)… Dal mo-
mento che lo Stato del Texas
mantiene un bilancio in pareggio ed
è la 15ma economia più prospera
del mondo, è praticamente possibile
per il Texas ritirarsi dall’Unione pro-
teggendo i suoi standard di vita e i
suoi cittadini, ripristinando i loro
diritti e le loro libertà in conformità
con le idee originali e le credenze dei
nostri Padri Fondatori che non sono
più il riferimento del governo fede-
rale».
La petizione della Louisiana ha
superato le 32mila firme (ieri era a
quota 32.886) e cita la Dichiarazio-
ne di Indipendenza degli Stati Uniti:
«
Quando nel corso degli umani
eventi, sorge la necessità che un po-
polo sciolga i legami politici che lo
hanno stretto ad un altro ed assu-
mere tra le potenze della terra, il se-
parato ed uguale statuto a cui le
Leggi della Natura e di Natura Dio
gli danno diritto, è conveniente ri-
guardo alle opinioni dell’umanità
richiede che esso renda note le cause
che lo costringono a tale secessio-
ne».
Prima di tutto, va detto che le
petizioni di questi cittadini sono pu-
ramente simboliche. La Costituzione
statunitense non contempla la pos-
sibilità di una secessione “pacifica”
(
come è specificamente richiesto nei
documenti presentati alla Casa Bian-
ca) e né il Texas, né la Louisiana
avrebbero le forze sufficienti a di-
chiarare una secessione manu mili-
tari. Chi teme una seconda Guerra
Civile, come quella che divise la
Confederazione dall’Unione cento-
cinquant’anni fa, si metta il cuore
in pace. Una guerra, al momento,
non è neppure nella mente di Dio.
Detto questo, però, le petizioni
non devono essere sottovalutate. So-
no un segnale politico forte. Tanto
quanto lo furono i movimenti Tea
Party nati nel 2009, all’indomani
della prima vittoria di Barack Oba-
ma.
Qual è il significato di questo se-
gnale? Anzitutto è bene capire quel-
lo che non è: non si tratta di una
manifestazione di nostalgia per la
vecchia Confederazione sudista, per-
ché, come abbiamo visto, le petizioni
sono trasversali e riguardano anche
molti stati “nordisti” (come l’Ohio,
il New Jersey, il New York e l’Illi-
nois, patria di Obama). Non si trat-
ta di un rigurgito di razzismo, né
dell’espressione della volontà di
chiudere il confine meridionale, per-
ché, se è vero che il Texas è uno sta-
to che condivide la frontiera con il
Messico, la multietnica Louisiana è
tranquillamente incastonata fra Te-
xas e Mississippi.
Il segnale, come si evince molto
chiaramente dai testi delle “dichia-
razioni di indipendenza” è puramen-
te politico ed economico. Nelle ele-
zioni presidenziali di martedì scorso
si sono confrontati due opposti mo-
delli di America: quella progressista
che vuole assomigliare all’Europa e
quella più libertaria che vuole rima-
nere un’eccezione di libertà nel mon-
do. Obama ha vinto perché è riu-
scito a catturare il cuore e le menti
dei progressisti, Romney ha perso
perché i veri conservatori del mo-
dello americano non hanno creduto
in lui, considerandolo un uomo
d’apparato come un altro. Difficil-
mente verranno capiti dai nostri me-
dia europei. Dalle nostre parti, in-
fatti, si continua a ripetere la litania
che “Romney ha perso perché si è
spostato troppo a destra”. Oppure:
ha perso “perché ha sposato la cau-
sa dei Tea Party” (che invece si sono
astenuti dal votarlo). Al contrario,
coloro che “non ci stanno” e arri-
vano a proporre una secessione, so-
no i delusi del sistema. Non voglio-
no Obama, vedono come un incubo
la prospettiva di fare la fine degli
europei, ma allo stesso tempo non
si fidano più dei Repubblicani, trop-
po appiattiti sulle logiche consocia-
tive di Washington.
Esattamente come i Tea Party, i
nuovi secessionisti sono contro la
sinistra e delusi dalla destra. E per
questo sono temuti dai conservatori
ufficiali”: «Questa marginale
chiacchiera di secessione è assurda
e controproducente – scrive Charles
Cooke sulla National Review – è
dovrebbe essere contrastata ed
emarginata, con estrema decisione,
dai conservatori di tutti i tipi». Ep-
pure, se la “secessione” (che è solo
simbolica, è bene ripeterlo) prenderà
piede, i Repubblicani dovranno farci
i conti. Così come, nel 2009 e nel
2010,
sono dovuti scendere a patti
con i Tea Party. In questo caso sarà
più difficile. Perché dovrà essere af-
frontata una grave contraddizione
storica: il Grand Old Party è il par-
tito di Abraham Lincoln, il presi-
dente che fece (e vinse) la guerra
contro la Confederazione secessio-
nista. Abbracciare un neo-secessio-
nismo sarebbe una grave contrad-
dizione storica per ogni
repubblicano. C’è da dire, però, che
anche i neo-secessionisti puntano il
dito su una grande anomalia della
storia: gli Stati Uniti sono nati da
una secessione (dall’Impero Britan-
nico, nel 1776). Pretendere che re-
stino uniti a tutti i costi non è una
contraddizione storica altrettanto
forte?
Siria e Iran, crisi in attesa
di una risposta degli Usa
Ucciso il leader
militare di Hamas
Texas e Louisiana
raccolgono decine
di migliaia di firme
per l’indipendenza
Non è nostalgia per
il vecchio Sud. È sfiducia
nell’amministrazione e
nella passività del Gop
K
Missile iraniano
opo 120 e passa razzi lanciati
da Hamas contro il territorio
israeliano, l’aviazione dello Stato
ebraico ha ucciso il leader del brac-
cio armato del movimento islamico
palestinese. Ahmed Said Khalil al-
Jabari era, secondo l’intelligence di
Gerusalemme, “il responsabile di
tutte le attività terroristiche” contro
civili e militari israeliani. Si tratta
sicuramente della perdita più grave
subita da Hamas sin dai tempi
dell’Operazione Piombo Fuso del-
l’inverno 2008-2009.
Si è trattato di un omicidio mi-
rato, nell’ambito di una limitata
operazione aerea in cui sono stati
colpiti altri 20 obiettivi militari. È
segno di un’escalation nella rispo-
sta israeliana ai continui lanci di
razzi dalla Striscia di Gaza. Fin dal-
l’inizio di quest’ultima crisi, nel fine
settimana, l’aviazione con la stella
di David aveva colpito depositi di
munizioni e rampe di lancio, pro-
vocando, in totale, l’uccisione di
sei palestinesi. Ora si è passati, evi-
dentemente, ad una seconda fase:
non solo vengono colpite armi e
strutture, ma anche la leadership
di Hamas. In questo modo, i vertici
militari di Gerusalemme mirano a
distrarre gran parte delle forze ne-
miche dalla loro offensiva. I leader
islamisti palestinesi saranno infatti
obbligati a destinare buona parte
del tempo e delle risorse a dispo-
sizione alla loro stessa sicurezza.
D
Hamas non può più sentirsi sicuro.
L’obiettivo è diventato il suo stesso
centro del potere. Questa strategia
ha già portato a buoni risultati in
passato. L’intensa campagna di
bombardamenti del 2008-2009 co-
strinse Hamas sulla difensiva per
più di due anni e il numero di at-
tacchi contro le città israeliane del
Sud diminuì di conseguenza.
Oltre che un’operazione mili-
tare, si è trattato anche di un’azio-
ne politica. Con questo colpo, il
governo Netanyahu mira a rassi-
curare i cittadini di Sderot, Bershe-
ba e Ashkelon: bersagliati dalla
pioggia di razzi, iniziavano ormai
a sentirsi abbandonati da Gerusa-
lemme. Martedì, con un simbolico
viaggio in treno da Tel Aviv a Ber-
sheba, durato appena un’ora, Ne-
tanyahu ha voluto dimostrare
quanto queste città siano vicine al
centro di Israele. Con l’uccisione
di al-Jabari (e accollandosi il ri-
schio di una pesante rappresaglia)
ha dato un segno inequivocabile
di non voler abbandonare i suoi
cittadini meridionali. È un segnale
anche per l’Onu, a cui Netanyahu
aveva chiesto una risoluzione di
condanna del terrorismo di Ha-
mas, senza ricevere risposte. Se la
comunità internazionale abbando-
na Israele, lo Stato ebraico ha di-
mostrato di potersi e volersi difen-
dere da solo.
(
ste. ma.)
L’OPINIONE delle Libertà
GIOVEDÌ 15 NOVEMBRE 2012
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