vrei paura di vivere in uno
Stato in cui le armi sono
solo in mano alla polizia e ai gan-
gsters». Lo dichiarava William Bor-
roughs. Che non è certo un “texa-
no dagli occhi di ghiaccio”,
conservatore e amante delle armi,
bensì il padre della letteratura psi-
chedelica statunitense. Il poeta non
faceva che ribadire lo spirito liber-
tario in cui sono nati gli Stati Uniti:
solo un popolo armato può difen-
dersi dal crimine. Dove, per “cri-
mine”, si intende anche quello che
lo Stato potrebbe commettere. La
pensano così anche tutti quegli
americani, meno creativi di Bor-
roughs, che in questi giorni stanno
letteralmente saccheggiando i ne-
gozi di armi.
Lo fanno per due motivi: prima
di tutto, la volontà di difendersi da
eventuali criminali, come Adam La-
za, autore della strage nella scuola
Sandy Hook di Newtown. Secon-
do: la necessità di armarsi prima
che Obama lo possa vietare, con le
nuove leggi che ha annunciato.
L’istinto dell’autodifesa è il più
evidente. La vendita di armi, infatti,
aveva già registrato un’impennata
l’estate scorsa, subito dopo la strage
nel cinema di Aurora, nel Colora-
do, dove un altro giovane folle ave-
va sparato sul pubblico in sala, du-
rante la proiezione dell’ultimo film
di Batman. Dopo il massacro della
Sandy Hook, si sta ripetendo la
«
A
stessa corsa agli armamenti indivi-
duali. Nel solo Colorado, teatro
della precedente strage, in questi
giorni, alla polizia, sono giunte
4200
richieste per il porto d’armi.
Se la polizia non arriva – si chiede
il cittadino medio – come faccio a
difendermi dall’aggressore? Non
importa andare a cercare, fra le sta-
tistiche, il numero di chi potrebbe
difendersi bene, di chi si addestra
regolarmente al poligono di tiro o
di chi, al contrario, non sarebbe in
grado di sparare con la pistola o il
fucile che possiede. Un’arma è
un’assicurazione in più sulla vita.
Ben che vada, solo sfoderarla fa-
rebbe da deterrente. Così viene per-
cepita dal grande pubblico. Ed è
un’idea più che rispettabile.
Altrettanto evidente è la volontà
di precedere le nuove norme che
verranno emesse dall’amministra-
zione Obama. Che proprio ieri ha
nominato il suo vicepresidente, Joe
Biden, a capo della commissione
che dovrà studiare i nuovi divieti.
Ad andare per la maggiore, infatti,
sono proprio quelle armi “d’assal-
to” che la prossima legge vorrebbe
vietare o, per lo meno, controllare
con maggior rigore. L’arma più
venduta nel dopo-strage, infatti, è
proprio l’AR-15 (con relative mu-
nizioni), cioè il fucile usato da
Adam Lanza. Non per spirito di
imitazione, si spera, ma proprio
perché sarebbe il primo modello
ad essere bandito. A una fiera di
Cincinnati, ieri, «le vendite sono
andate sopra le stelle – come di-
chiara un esponente della locale as-
sociazione per le armi alla Fox
News – La gente sta comprando
tutto ciò che può per paura che il
presidente proibisca certi tipi di fu-
cili e di negozi che possano vender-
li».
Di fondo c’è comunque la con-
vinzione che il proibizionismo non
risolva il problema. Puoi vietare le
armi, i film d’azione accusati di
promuovere la violenza (lo stesso
Quentin Tarantino sta difendendo
a spada tratta il suo ultimo “Djan-
go Unchained”) e pure i videogio-
chi violenti. Ma i criminali conti-
nueranno ad esistere. Per difendersi
da essi... è forse meglio essere pron-
ti e armati.
(
ste. ma.)
II
ESTERI
II
Un po’ di chiarezza sulla tragedia di Bengasi
di
STEFANO MAGNI
è un po’ di luce sui fatti di
Bengasi dell’11 settembre
scorso. Ma non molta. E non in
grado di far male ad alcuno. Sono
ormai passati quasi quattro mesi
da quando l’ambasciatore statu-
nitense in Libia, Chris Stevens e
tre uomini del suo staff, Sean
Smith, e i Navy Seals Glen Doher-
ty e Tyrone Woods sono stati as-
sassinati dai terroristi. Ieri, a Wa-
shington, una commissione
indipendente, guidata dall’ex co-
mandante degli Stati Maggiori
Riuniti, l’ammiraglio Mike Mullen
e dall’ambasciatore in pensione
Thomas Pickering, ha pubblicato
un rapporto ufficiale. Da cui si
evince che la responsabilità per la
morte dei quattro americani rica-
de, oltre che sui loro assassini, an-
che sul Dipartimento di Stato e su
due suoi uffici in particolare, quel-
lo per Sicurezza Diplomatica e
quello per il Medio Oriente, col-
pevoli di non averli protetti. Tut-
tavia, né Hillary Clinton, né alcun
altro funzionario siedono “sul
banco degli imputati”. L’Accoun-
tability Review Board (questo il
nome della commissione) ritiene
che nessuno, in particolare, abbia
violato i suoi ordini o agito non
rispettando le procedure corrette.
Quindi, nell’immediato, non sono
previste azioni disciplinari. Ma in
futuro sì. Perché gli errori com-
messi dal Dipartimento di Stato
consistono in una «Sistematica ca-
renza di leadership e di gestione»
C’
della crisi, che è «risultata in
un’inadeguata sicurezza della Mis-
sione Speciale a Bengasi, non suf-
ficiente a far fronte all’attacco su-
bito». L’indagine andrà avanti e
resterà una mina vagante per mol-
ti. Prima di tutto per gli alti fun-
zionari del Dipartimento di Stato.
In soldoni: il ministero degli
esteri statunitense è accusato di
non aver fatto abbastanza per
proteggere il Consolato di Bengasi.
Mentre il rapporto giunge alla
conclusione che, una volta inizia-
to, l’attacco terroristico non si po-
tesse più fermare con le forze a di-
sposizione. Assolti, anzi elogiati, i
pochi uomini presenti sul campo:
hanno fatto tutto il possibile per
difendere, anche a costo della loro
vita, l’incolumità del personale di-
plomatico. Assolti anche i militari,
che non avrebbero potuto inter-
venire in tempo per salvare il sal-
vabile. Incriminata, invece, la si-
curezza fornita dai libici: sia le
milizie armate che le guardie pri-
vate si sarebbero rivelate assolu-
tamente inaffidabili al momento
del pericolo. Di esercito libico o
di una polizia regolare non si può
parlare… perché non ci sono. A
maggior ragione, in luogo del
mondo ancora privo di ordine e
di forze per farlo rispettare, si sa-
rebbe dovuto provvedere ad una
sicurezza eccezionale.
Prima dell’attacco si sarebbe
potuto fare di più? Sì e proprio
per questo motivo, il rapporto
elenca 29 provvedimenti da pren-
dere per evitare il ripetersi di tra-
gedie simili. La raccomandazione
si traduce in un unico impegno,
sottoposto all’attenzione del Con-
gresso: ci vogliono più soldi. Per-
ché i tagli che hanno preceduto
l’attacco dell’11 settembre sono
una causa rilevante della mancan-
za di personale di sicurezza. La
commissione di inchiesta ritiene
che non vi fossero specifici segnali
di allarme di attacco terroristico
imminente. Tuttavia rileva (come
era già evidente) che la situazione
fosse già tesa e che vi fossero già
stati episodi di violenza contro il
personale diplomatico di altri Pae-
si occidentali in Libia. Inoltre, lo
stesso Consolato americano di
Bengasi aveva già mandato richie-
ste di aiuto. Che sono state disat-
tese dal Dipartimento di Stato.
Il rapporto non mette la parola
fine” alla vicenda di Bengasi. Una
versione pubblica è sotto gli occhi
di tutti. Ma una versione segreta,
con molti dettagli in più, è stata
inoltrata ieri al Congresso. Sempre
ieri si è tenuto un incontro a porte
chiuse fra il comitato di inchiesta
e le comitati per gli Affari Esteri
di Camera e Senato. Oggi invece
toccherà ai sottosegretari William
Burns e Thomas Nides comparire
di fronte agli stessi comitati in un
incontro pubblico.
La segretaria di Stato, sollevata
dal rapporto di ogni responsabilità
diretta, per ora può solo tirare un
sospiro di sollievo, ringraziare (co-
me ha già fatto) la commissione
di inchiesta e scaricare sul Con-
gresso la colpa del sotto-finanzia-
mento della sicurezza del perso-
nale diplomatico.
Ci sarà ancora molto da discu-
tere. Prima di tutto sulle respon-
sabilità politiche dell’amministra-
zione. Dal rapporto (pubblico) si
apprende, infatti, che l’attacco ter-
roristico non è stato affatto pre-
ceduto da una manifestazione
spontanea contro un video ama-
toriale su Maometto. Si è trattato
di un attacco ben organizzato, pu-
ro e semplice, non della degenera-
zione di un moto di piazza. La na-
tura dell’assalto, per altro, risulta
essere stata nota all’intelligence
sin dai primi giorni. Perché, allora,
per due settimane, l’amministra-
zione ha continuato ad attribuire
tutte le colpe al video su Maomet-
to, identificandolo come la causa
della inesistente “rivolta”? A que-
sta domanda, solo Barack Obama
e Hillary Clinton possono rispon-
dere. Mentre, finora, ci è andata
di mezzo solo Susan Rice, amba-
sciatrice all’Onu, che ha l’unica
colpa di aver dato, per prima, que-
sta versione dei fatti.
Restano poi senza risposta tut-
te le domande che lo storico mili-
tare Victor Davis Hanson si era
posto, in un articolo sulla Natio-
nal Review, il 20 novembre scorso.
E riguardano tutte le responsabi-
lità dirette dell’amministrazione
Obama. Primo: perché la sicurezza
era così debole proprio nella pe-
ricolosa Bengasi? In sette ore di
attacco terroristico non era pro-
prio possibile intervenire con mez-
zi militari in soccorso ad una sede
diplomatica assediata? Perché la-
sciare aperto un consolato a Ben-
gasi, quando altri Paesi avevano
ritirato il loro personale persino
dalla stessa Tripoli (la capitale li-
bica)? L’attacco a Bengasi è con-
nesso in qualche modo con le di-
missioni di Petraeus, presentate,
ufficialmente, solo a causa di uno
scandalo sessuale? Perché l’ex di-
rettore della Cia si è dimesso solo
dopo le elezioni? Infine, ma non
da ultimo, lo storico Davis Han-
son si chiede: a cosa porterà tutto
ciò? E conclude: «Penso: a nulla.
Contrariamente ai casi Watergate
(
contro Nixon) e Iran-Contra
(
contro Reagan), la stampa inve-
stigativa non è all’opera, vista la
preoccupazione dei media a non
danneggiare il secondo mandato
dell’amministrazione».
Stragi chimiche?
Paura in Siria
Gli americani comprano armi
in attesa dei nuovi divieti
Il Dipartimento di Stato
è colpevole per
la mancanza di sicurezza
del Consolato
Restano senza risposta
una serie di aspetti
sulle responsabilità
della Casa Bianca
iria, i ribelli hanno scelto un loro
comandante unificato, Salim
Idris. Una delle sue prime dichia-
razioni suona come un grido di al-
larme: il regime di Assad potrebbe
usare a breve anche le armi chimi-
che per stroncare l’insurrezione.
Idris, in una conferenza stampa te-
nuta nella città turca di Antakya,
ha dichiarato che Damasco «può
e vuole» usare i suoi armamenti
non convenzionali, almeno finché
«
la comunità internazionale non
caccerà il regime di Assad». Sempre
secondo Idris, «Noi sappiamo dove
sono (le armi chimiche, ndr) e stia-
mo tenendo tutto sott’occhio. Ma
non abbiamo la capacità di impos-
sessarcene».
La versione di Damasco è spe-
culare. Anche all’inizio di questa
settimana, l’ambasciatore all’Onu,
Bashar Jafari, ha negato tassativa-
S
mente la possibilità di usare armi
chimiche contro il proprio stesso
popolo. Ma ha avvertito che po-
trebbero essere catturate e usate dai
ribelli. Ha anche sostenuto che gli
insorti potrebbero usare i gas tossici
in attentati di cui attribuire la re-
sponsabilità al governo. Conoscen-
do i livelli di disinformazione del
regime arabo (soprattutto in tempi
di guerra civile), è anche possibile
che si avveri il contrario. Cioè che
sia Damasco a dare l’ordine di lan-
ciare i gas per poi attribuirne la col-
pa ai ribelli.
Un’altra costante nelle dichia-
razioni di Damasco, è l’impossibi-
lità di usare le armi chimiche sul
proprio territorio. Ma in quello dei
Paesi vicini? Il regime non ha mai
escluso rappresaglie in caso di in-
tervento straniero. Insomma, pro-
prio quell’azione della “comunità
internazionale” auspicata dal nuo-
vo capo militare dei ribelli, farebbe
da detonatore per le armi di distru-
zioni di massa. Contro chi potreb-
bero essere usate? Israele, oltre alla
Turchia, teme di essere il bersaglio
privilegiato”. O l’artiglieria siriana
sul Golan, o eventuali razzi passati
sottobanco a Hezbollah, nel Libano
meridionale, potrebbero bersagliare
le città israeliane del Nord, provo-
cando perdite immense nella popo-
lazione. Lo Stato ebraico si sta pre-
parando al peggio.
MARIA FORNAROLI
L’OPINIONE delle Libertà
GIOVEDÌ 20 DICEMBRE 2012
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