Pagina 4 - Opinione del 22 -8-2012

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di
GIUSEPPE MELE
inecittà è da più di un mese oc-
cupata dai suoi. 230 lavoratori
in sciopero. In un paese che perde
mille posti di lavoro al giorno, è la
solita protesta contro l’esternaliz-
zazione, la divisione delle maestran-
ze in piccoli gruppi passati in varie
società, preludio alla chiusura delle
attività. I trasferimenti di rami d’im-
presa, per i più sono ordinaria am-
ministrazione che non contempla
licenziamenti. In Wind però una
grossa esternalizzazione è stata
bloccata anche con l’intervento di
questo governo. Le polemiche sulle
reali intenzioni abbondano nella
strutturale sfiducia tra le parti. E
qui c’è di mezzo Cinecittà, il mar-
chio degli storici 22 teatri di posa
romani sorti nel 1937, la storia del
Cinema italiano di Fellini e Visconti,
di 3000 film da Francis Ford Cop-
pola a Scorsese, di 47 Oscar e 90
candidati. Cinecittà, e non Roma,
è il cinema italiano nel mondo. Ne-
gli Usa è il set di
Ben-Hur
,
Cleopa-
tra
e
Gangs of New York
. Le sue
sorti sono in mano al “grande uffi-
ciale” Luigi Abete, figlio di editori
beneventani. Più che imprenditore,
un rappresentante corporativo: pre-
sidente dei giovani industriali, di
Confindustria, della Luiss e dell’Uir,
degli Industriali romani. Onnipre-
sente, dalla grande farmaceutica
all’Abi, allo sport, la famiglia Abete,
in politica senza essere coinvolta in
partiti, è sopravvissuta a qualunque
tempesta. Non è un produttore,
Luigi, ma un grande mediatore. Un
C
problem solver
come quando, erede
di Nesi, ha venduto Bnl, rimanen-
done presidente, a Parisbas. Vero
membro dell’Aspen Istitute, non ha
nemici né a destra né a sinistra,
braccio a braccio fino alla fine con
Geronzi per dividersi giusto in tem-
po per l’assoluzione per sé e la con-
danna per l’altro. Stava quasi rac-
cogliendo la candidatura a futuro
sindaco di Roma, quando gli è ar-
rivata tra capo e collo la pietra di
Cinecittà. Fu Ciampi ad affidarglie-
la.
Lo stato, che già ha in carico
l’industria culturale alla Rai, voleva
solo liberarsi di un
brand
così in-
gombrante. Malgrado gli sforzi, il
100% di 10 ettari di terreni, piscina
all’aperto da 7000 m², studi e teatri
di posa sono ancora del ministero
dello Sviluppo mentre il ministeri
dei Beni artistici e culturali detiene
il 20% degli Studios. Giolittiana-
mente, il timido Ornaghi e Passera
si sono trincerati dietro la richiesta
di cessare l’occupazione, lasciando
il prefetto a pretendere i tavoli di
colloquio. Forse l’occupazione non
aiuterà le sue maestranze, ma cer-
tamente ha salvato enti a latere co-
me il Centro sperimentale di cine-
matografia, l’Istituto centrale per i
beni audio e la Cineteca nazionale,
che dovevano essere chiusi dalla
spending review
e sono stati salvati
dal clima di mobilitazione. Nel ’97
i Cinecittà Studios vennero affidati
al gruppo Ieg - Italian Entertain-
ment - di Abete, partecipato da Del-
la Valle, De Laurentiis, Haggiag e
per il 20% dal MiBac. Abete in re-
altà affittò ciò che non poteva com-
prare, con una spesa da locatario
di 30 milioni in 15 anni. Per l’im-
pegno che sgravava di costi il Fus
(Fondo unico per lo spettacolo),
Abete ottenne di essere liberato
dall’Istituto Luce (Cinecittà Luce
Spa) e dai suoi 120 dipendenti. L’ar-
chivio (150 film, documentari e 200
contenuti Tv) è finito su tre canali
Iptv Telecom Italia, il resto fuso nel
ministero che si è accolltato la
mis-
sion
della promozione. Scrive il
Wa-
shington Post
: «Cinecittà, da asso-
luto monolite statale del cinema, è
divenuto un gruppo di piccole so-
cietà specializzate più agili» che do-
veva, con le abilità dei lavoratori,
richiamare i registi stranieri, «dopo
che il cinema italiano era stato mo-
ribondo per lungo tempo». Ora pe-
rò questo cinema non sta così male,
anzi; nel 2011 ha toccato il record
di 155 film. Ad agonizzare è solo
Cinecittà dove sono stati prodotti
solo 8 film e 6 show tv.
Per il suo piano d’edilizia, Abete
contava sulla confusione dei flash
d’agenzia su Cinecittà: Cinecittà
sull’Iptv Telecom; Cinecittà e gli ac-
cordi con Google; Cinecittà museo
ed ora parco. Malgrado gli sforzi
delle addette pr istituzionali, Carole
André (l’interprete Rai della Perla
di Labuan) e la 35enne Désirée Co-
lapietro Petrini, sono stati gli ame-
ricani (Benjamin Gottlieb
Washin-
gton Post
,
«Cinecitta workers resist
plans for hotel, theme park at ac-
claimed Rome film studio»
) a fare
un quadro impietoso del manage-
ment: giri interni di fatturazioni, ri-
sultato operativo basso, sotto i 20
milioni, 4 milioni di debiti corri-
spondenti quasi del tutto all’affitto
degli stabilimenti, film sulla Toscana
fatti in Argentina, prezzi alle stelle
di camerini e servizi base, fuga dei
produttori in Bulgaria, Romania e
Serbia, ed infine «l’oltraggio di tra-
sformare gli studi di Cinecittà in
sfarzosi hotel» e la «reazione di al-
cuni dei più abili artisan, scenografi
e costumisti del cinema italiano».
A Roma l’occupazione sulla Tusco-
lana può perdersi in una ridda di
sit-in permanenti, vecchi e nuovi tra
cui quelli dell’Istat e del cinema
Maestoso.
Il brutto edificio sulla Tuscolana
tra asfalto bollente, centri commer-
ciali, call center e raccordo auto-
stradale che all’interno racchiude i
sogni di Roma antica, western, Co-
losso di Rodi e America anni ‘30 è
un parte del venerabile cinema eu-
ropeo. L’occupazione, lo stato di
abbandono, anche l’incendio del fa-
moso Studio 5 di Fellini, non avreb-
bero toccato Abete più di tanto se
non avessero prodotto le critiche
Usa dove la lotta è stata accostata
all’
Occupy Wall Street
.
Si può ben dubitare dell’efficacia
di un investimento da 600 milioni
per il “Cinecittà World” a Castel
Romano (con 52 lavoratori passati
alla nuova Cinecittà Allestimenti e
Tematizzazioni) dal punto di vista
di Hollywood dove l’analogo parco
a tema viene sempre rinviato a data
da destinarsi ed il Theatre della ce-
rimonia degli Oscar ha cambiato
nome da Kodak a teatro Dolby per
II
SOCIETÀ
II
La crisi di Cinecittà, paradosso del cinema italiano
Nei giorni della morte
di Renato Nicolini,
re dell’effimero,
ancora si misura quanto
sia profondamente
sbagliata la sua ricetta,
vera nemica
dei lavoratori
di Cinecittà: localismo
estremo, finanziamento
del consumo
(non della produzione),
esaltazione delle caste
familiari culturali.
Frutto di quel mondo
è anche l’unidirezionalità
ideologica degli autori
italiani che malgrado
i flop al botteghino
trattano sempre
di complotti, povertà
e caimani. È il cinema
prodotto a sostenere
la cultura
dell’intrattenimento,
non il contrario
L’OPINIONE delle Libertà
MERCOLEDÌ 22 AGOSTO 2012
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