ostituendo Hillary Clinton alla
guida della diplomazia statuni-
tense, il senatore democratico John
Kerry (candidato alla presidenza
nel 2004) si trova di fronte uno sce-
nario difficilissimo da districare.
L’Iran e il Medio Oriente sono i
dossier più urgenti.
Per ora, nelle audizioni a Came-
ra e Senato, Kerry si è concentrato
soprattutto sul Medio Oriente. Il
suo primo obiettivo annunciato è
il ritorno al negoziato fra Israele e
Palestina, interrotto sin dal 2010.
Per ora non ha rivelato quali siano
le linee-guida della sua strategia. Si
può già intuire, però: tentare di far
accettare a Israele la legittimità dei
governi islamisti. Impresa disperata,
considerando che sono proprio gli
islamisti (i Fratelli Musulmani e la
loro emanazione palestinese: Ha-
mas) che non accettano l’esistenza
stessa dello Stato di Israele.
L’Egitto gioca un ruolo chiave
nella mediazione ed è governato da
un presidente, Mohammed Morsi,
esponente di punta dei Fratelli Mu-
sulmani. Kerry ha dimostrato, nella
pratica, non solo di sostenere l’al-
leanza con l’Egitto (a cui gli Usa
stanno vendendo altri caccia F-16),
ma di volere una partnership con il
partito di Morsi. Ai tempi delle pri-
me libere elezioni egiziane, Kerry si
è recato in Egitto per offrire la sua
consulenza al partito islamista. A
cosa mira? L’amministrazione Oba-
S
ma ha sempre sperato che in Egitto
e altrove nel mondo musulmano, si
ripetesse l’esperienza della Turchia,
dove è al governo un partito isla-
mista democraticamente eletto che
non ha messo in discussione l’alle-
anza con gli Stati Uniti, né ha tra-
sformato il proprio Paese in una
teocrazia. Con l’Egitto, però, non è
detto che si ripeta questo “miraco-
lo”, più unico che raro nella storia
del mondo islamico. Il Cairo, infatti,
non ha mai avuto una storia di de-
mocrazia e laicismo alle sue spalle.
E, quanto alla politica estera, la vit-
toria di Libertà e Giustizia è
l’espressione di una gran volontà di
rivincita su Israele. Solo Morsi, do-
po tre decenni di pace, è pronto a
rimettere in discussione la lunga tre-
gua con lo Stato ebraico. Il sostegno
che Kerry darà ai Fratelli Musul-
mani, insomma, rischia di compro-
mettere l’obiettivo finale, quello del-
la pace in Medio Oriente.
La posizione di Kerry sull’Iran
è l’opposto di quella sull’Egitto.
Nella sua audizione al Senato, il
nuovo segretario di Stato ha preci-
sato che mira a “prevenire” e non
a “contenere” l’atomica di Teheran.
Dunque: si useranno tutti i metodi
possibili per impedire al regime
dell’ayatollah Khamenei di diven-
tare una potenza nucleare. Ma è
possibile essere falchi con l’Iran e
colombe con l’Egitto? I due Paesi,
benché ostili l’uno all’altro, soprat-
tutto per motivi religiosi (il primo
è sciita, il secondo è sunnita) con-
dividono sempre di più la loro co-
mune ostilità a Israele. Dopo de-
cenni di chiusura, l’Egitto ha
iniziato a permettere all’Iran di at-
traversare con le sue navi il canale
di Suez. E Morsi ha dichiarato più
volte di volersi riavvicinare al regi-
me di Teheran, sostenuto da gran
parte dell’opinione pubblica egizia-
na che lo ha votato. La politica di
Kerry, insomma, rischia di rivelarsi
un boomerang, proprio per la sua
sottovalutazione dell’ostilità islami-
ca a Israele.
GIORGIO BASTIANI
II
ESTERI
II
L’Europamediterranea che affoga nello statalismo
di
STEFANO MAGNI
ario Draghi, presidente della
Banca Centrale Europea, in-
travvede una ripresa nell’eurozona
per la seconda metà del 2013. Lo
ha dichiarato al World Economic
Forum di Davos. E mentre lo dice-
va, ad Atene piovevano manganelli
sui tranvieri in sciopero. E i dati sul-
la disoccupazione in Spagna rive-
lavano che più di 1 giovane su 2
fosse senza lavoro. Un marxista ac-
costerebbe queste scene per dimo-
strare l’oppressione del capitale sui
proletari. Un fascista penserebbe
che il discorso di Draghi, pronun-
ciato mentre i lavoratori Sud-euro-
pei soffrono, sia il simbolo reificato
della tirannia dei banchieri “usurai”
(
possibilmente ebrei e massoni) sui
popoli. Un liberale, al contrario, sa
che il problema non è il capitale, né
è costituito dalle banche. E all’ot-
timistica visione del futuro che ha
Draghi, dovrebbe rispondere: di-
pende. Dipende dalle scelte politiche
che verranno compiute nei prossimi
mesi. Perché il problema è politico,
prima ancora che economico.
La Grecia è tuttora il Paese me-
no libero d’Europa. L’Index of Eco-
nomic Freedom della Heritage
Foundation lo colloca in fondo alla
classifica del Vecchio Continente e
nella fascia bassa (Paesi prevalen-
temente repressi) del mondo. Nella
graduatoria generale si colloca al
117
° posto (su un totale di 177), al
di sotto della maggioranza delle na-
zioni in via di sviluppo e di un
buon numero di Stati post-comu-
M
nisti. Il settore pubblico è tuttora
dominante nell’economia greca. Il
mercato del lavoro è più blindato
che in Italia. Un sistema del genere,
alla lunga, è insostenibile. La Gre-
cia, per cercare di mantenerlo in
piedi, si è indebitata oltre ogni li-
mite accettabile: oggi il suo debito
pubblico è pari al 152,6% del Pil.
Per riuscire a pagare ancora pen-
sioni e salari pubblici, Atene deve
ricorrere ai prestiti internazionali.
La troika, costituita da Unione Eu-
ropea, Banca Centrale Europea e
Fondo Monetario Internazionale,
ha concesso alla Grecia 240 miliar-
di di euro per evitare la bancarotta
dello Stato greco. Non si tratta di
elemosina, ma di prestiti vincolati
a riforme strutturali. È solo a causa
di questa pressione che il governo
Papandreou (socialista) prima, Pa-
pademos (tecnico) poi e Samaras
(
conservatore) oggi, sono corsi ai
ripari con una politica di “austeri-
ty”. In cosa consiste? Sostanzial-
mente in tre mosse: aumentare le
tasse, dismettere beni immobili e ri-
durre stipendi e pensioni. In modo
da permettere allo Stato di dimi-
nuire le sue spese e aumentare le
sue entrate. Il personale della me-
tropolitana è in sciopero perché è
l’ultimo (in ordine di tempo) ad es-
sere rimasto vittima dei tagli: i loro
salari sono stati ridotti del 25%. La
paralisi del trasporto pubblico ha
creato il caos ad Atene. E il governo
Samaras ha deciso, ieri all’alba, di
intervenire con le maniere forti,
mandando la polizia a sciogliere i
picchetti dei trasportatori. Il tutto
avviene in uno scenario di destabi-
lizzazione politica inquietante. Il
partito neonazista Alba Dorata è
oggi dato al 10% dei consensi. Fino
all’anno scorso era limitato ad un
simbolico 1%. Cresce (e diventa più
violenta) anche la sinistra estrema.
Non solo quella rappresentata in
parlamento dal Partito Comunista
(
Kke) e dalla sinistra alter-mondista
(
Syriza), ma anche quella extra-par-
lamentare anarchica. Sono infatti
gli anarchici che hanno rivendicato
l’ultimo attentato dinamitardo al
centro commerciale The Mall, di
Atene, che ha ferito due poliziotti.
E sono sempre loro dietro ad una
serie di attentati, avvenuti negli ul-
timi due anni, che hanno colpito
funzionari, poliziotti e anche gior-
nalisti accusati di essere troppo fi-
lo-governativi. Questa forte desta-
bilizzazione politica non fa bene
alla Grecia, la cui economia si basa
soprattutto sul turismo e sui servizi.
I numerosi scioperi dei trasporti, gli
scontri di piazza, le minacce degli
estremisti, stanno completando
l’opera di auto-distruzione di un
Paese. Le aziende chiudono una do-
po l’altra e la disoccupazione tocca
il livello record del 26%.
Questo vuol dire che l’austerity
greca non funziona? No, vuol dire,
semplicemente, che non è stata mes-
sa in atto. Un conto è tagliare la
spesa e aumentare le tasse, tutt’altro
è privatizzare e liberalizzare. Sama-
ras (e i due governi che lo hanno
preceduto) ha scelto la prima via,
per salvare lo Stato a spese dei cit-
tadini. La spesa pubblica, nonostan-
te i tagli, è tuttora al di sopra del
50%
del Pil. La tassazione, in com-
penso, è arrivata ad aliquote (no-
minali) del 46% sui redditi. E se ag-
giungiamo le imposte indirette,
vediamo che (come in Italia), i greci
pagano più della metà di quel (po-
co) che guadagnano. L’altra via,
quella delle privatizzazioni e delle
liberalizzazioni è stata percorsa solo
in minima parte. Come dimostra,
d’altronde, il 117° posto occupato
dalla Grecia nella classifica della li-
bertà economiche. I governi ellenici,
vuoi per cultura, vuoi per interessi
consolidati da decenni, non riesco-
no a vedere modelli alternativi.
La situazione della Spagna è so-
lo apparentemente meno dramma-
tica di quella della Grecia. Ma, sot-
to molti aspetti, è analoga. Ha la
stessa disoccupazione (26% a livel-
lo nazionale, 55% di disoccupazio-
ne giovanile) e gli stessi livelli di re-
cessione (il Pil si è contratto
dell’1,3% nel 2012). La causa è so-
lo leggermente diversa. Non è la
spesa pubblica ad essere andata
fuori controllo, ma il mercato im-
mobiliare. Alimentato, però, da una
politica (pubblica) di agevolazione
dei mutui e dei crediti ai costruttori.
Quando è scoppiata la bolla del
mercato immobiliare, le banche so-
no entrate in crisi di conseguenza.
Lo Stato si è indebitato, a sua volta,
per cercare di salvare il suo sistema
creditizio. Oggi la Spagna è un Pae-
se in bilico. Il governo Rajoy (con-
servatore) è ricorso ai tagli alla spe-
sa pubblica per cercare di
riequilibrare i conti e ha provocato
una nuova ondata di indignazione.
Quel 55% di giovani che non tro-
vano un posto di lavoro sta diven-
tando una “massa di manovra” per
l’estremismo. E la frammentazione
di un Paese multi-nazionale accele-
ra: questa settimana il parlamento
della Catalogna (la regione relati-
vamente più benestante e meglio
amministrata) ha votato una di-
chiarazione di autodeterminazione.
I Paesi Baschi non vedono l’ora di
andarsene. E Madrid ricorre a mi-
nacce dell’uso della forza non trop-
po velate. Anche qui: lo Stato spa-
gnolo non vuol cambiare, cerca di
salvarsi facendo pagare il conto ai
suoi cittadini. E la conseguenza è
l’estremizzazione della politica. Det-
to questo, la ripresa di cui parla
Draghi è e resta possibile. Se l’eu-
rozona non scoppia prima.
Guerra di satelliti
fra le due Coree
John Kerry dovrà scegliere
fra Israele e i governi islamici
Mario Draghi parla
di ripresa dell’eurozona.
Mentre Spagna e Grecia
stanno affondando
SiaMadrid che Atene
non vogliono riforme,
ma tenere in piedi i loro
stati a spese dei cittadini
K
John KERRY
l lancio di un missile si ri-
sponde con un altro missile,
ad un satellite si risponde con un
altro satellite. Sono questi i termi-
ni della “guerra” scoppiata fra le
due Coree. Non si tratta di un
conflitto guerreggiato, per fortuna.
Ma di una serie di dimostrazioni
di forza. Dopo il lancio di un Tae-
po-dong 2 nordcoreano (in teoria
per mandare in orbita un satellite
civile), il governo di Seul replica
preparandosi a lanciare un pro-
prio satellite in orbita. Il Korean
Space Launch Vehicle, di fabbri-
cazione russo-sudcoreana è già in
allestimento sulla rampa di lancio.
Il decollo è previsto per il prossi-
mo 30 gennaio. Non è la prima
volta che Seul cerca di entrare nel-
la corsa allo spazio. Ci aveva già
provato nel 2009 e nel 2010. Nel
2009
il lancio del missile era riu-
scito, ma il suo secondo stadio
aveva funzionato male: non era
riuscito a rilasciare il satellite in
orbita. Nel 2010, invece, il missile
era esploso in aria, due minuti do-
po il lancio. Due anni dopo e in
seguito a numerosi rinvii lo scorso
autunno, la Corea del Sud si ap-
presta a riprovarci. L’obiettivo po-
litico è quello di affermarsi come
potenza spaziale asiatica. Giappo-
ne, India, Cina e persino l’Iran
(
con il suo Homid, lanciato nel
2009)
hanno i loro satelliti già in
orbita. Seul, in questo settore, ri-
A
schia di essere battuta persino dal
regime di Pyongyang. E non se lo
può permettere.
Un lancio di un missile, sia pur
solo civile, è in ogni caso destinato
ad accelerare la corsa agli arma-
menti fra le due Coree. E a gettare
benzina sul fuoco sulla tensione
già alta fra Nord e Sud. Il Comi-
tato per la Riunificazione Pacifica
della Patria, emanazione del go-
verno comunista nordcoreano, ieri
ha lanciato il suo pesante avver-
timento: «Le sanzioni (decise
dall’Onu tre giorni fa contro la
Corea del Nord, ndr) sono da
considerarsi come una dichiara-
zione di guerra contro di noi. Se
il regime fantoccio e traditore sud-
coreano parteciperà direttamente
alla loro applicazione, prendere-
mo dure contromisure pratiche».
Quanto pratiche non è dato sa-
perlo. Ma nel 2010 i nordcoreani
sono arrivati sino al punto di af-
fondare una nave e bombardare
un isola, provocando decine di
morti fra i sudcoreani. Non si
scherza, insomma. In caso di test
nucleari o nuove provocazioni mi-
litari, però, anche la Cina si di-
chiara pronta a rallentare il flusso
di aiuti economici e alimentari de-
stinati al “regime eremita”. Se
Pyongyang tira troppo la corda,
rischia di pagare un prezzo che
non può permettersi.
(
ste. ma.)
L’OPINIONE delle Libertà
SABATO 26 GENNAIO 2013
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