bastata una partita di calcio
per dare inizio a un anno di
violenze in Egitto. Gli scontri ar-
mati scoppiati in questo fine setti-
mana a Port Said, Ismailia e Suez
(33
morti finora accertati) sono
l’onda lunga della partita fra l’Al
Masri di Port Said e l’Al Ahli del
Cairo, giocata lo scorso febbraio.
Allora, i tifosi dell’Al Masri aveva-
no attaccato, a fine partita, i tifosi
e i giocatori della squadra ospite,
in quella che verrà ricordata come
una delle peggiori stragi della storia
del calcio. Le vittime, nei disordini
di febbraio, furono ben 74. A quasi
un anno di distanza, il processo agli
ultras si è concluso con la condan-
na a morte 21 persone, considerate
responsabili della strage. E la vio-
lenza, che continuava a covare sot-
to le ceneri, è esplosa di nuovo.
Alla brutalità degli ultras si è
aggiunto, in questi giorni, anche lo
scontro politico. Il 25 gennaio, in-
fatti, è il secondo anniversario del-
l’inizio della ribellione contro il re-
gime di Mubarak. I democratici e
laici, che hanno fatto la rivoluzione
ed ora se la sono vista scippare dai
Fratelli Musulmani, hanno dichia-
rato guerra al nuovo potere del
presidente islamico Mohammed
Morsi. I laici avevano boicottato i
lavori dell’Assemblea Costituente,
ma gli islamici li hanno bellamente
scavalcati, approvando, da soli, for-
ti della loro maggioranza, la bozza
È
della nuova carta. Hanno fatto
campagna per la sua bocciatura nel
successivo referendum popolare,
ma hanno perso, anche a causa di
frodi, brogli e pressioni sui votanti.
Lo scontro scoppiato nelle città co-
stiere ha fatto da innesco per un
nuovo braccio di ferro fra gli op-
positori e i sostenitori del nuovo
corso egiziano, in Piazza Tahrir,
luogo simbolo della rivoluzione
nella capitale.
Gli scontri in corso, dunque, so-
no due e neppure direttamente col-
legati fra loro. Da un lato gli ultras
dell’Al Masri che si sentono perse-
guitati dalle condanne a morte
comminate ai loro compagni di cal-
cio e di lotta. Dall’altro i democra-
tici che non accettano la nuova Co-
stituzione islamica voluta da Morsi.
Il presidente, per placare gli uni e
gli altri, ieri ha proclamato lo stato
di emergenza, che prevede il copri-
fuoco nelle città più colpite (Ismai-
lia, Port Said e Suez). E allo stesso
tempo, ha invitato i gruppi di op-
posizione a partecipare a un nuovo
dialogo nazionale”. Ma il Fronte
di Salvezza Nazionale (Fsn), l’or-
ganizzazione-ombrello delle forze
democratiche, non accetta l’invito.
Lo scontro politico si è troppo in-
cancrenito in questi mesi per essere
risolto con metodi parlamentari.
Khaled Dawoud, portavoce del Fsn,
approva pubblicamente il coprifuo-
co imposto dal presidente. L’ha de-
finita «La scelta giusta per affron-
tare quel che sta accadendo, gli
omicidi e gli atti criminali». Ma sul
dialogo”, proprio, non ci sente. Il
leader politico dell’Fsn, Moham-
med El Baradei (l’ex direttore del-
l’Aiea ed ex candidato alle presi-
denziali) scrive sul suo profilo
Twitter: «Finché il presidente non
si assumerà la responsabilità per
questi eventi sanguinosi e non pro-
metterà la formazione di un gover-
no di salvezza nazionale e di un co-
mitato bipartisan per emendare la
Costituzione, ogni dialogo sarà solo
una perdita di tempo».
GIORGIO BASTIANI
II
ESTERI
II
Hillary for President”, nonostante tutti gli errori
di
STEFANO MAGNI
illary Clinton lascia l’incarico,
con il plauso del presidente
Barack Obama. La titolare della po-
litica estera statunitense, dopo es-
sersi ripresa da un brutto periodo
di malattia (svenuta a causa di un
malore, si è procurata una commo-
zione cerebrale), si è presentata di
fronte al Senato per rispondere alle
domande su Bengasi e ha mostrato
una grande vitalità.
È stata la sua ultima apparizione
pubblica, o la prima tappa della sua
campagna elettorale? C’è da scom-
mettere, salvo imprevisti, per la se-
conda ipotesi. Persa la nomination
nel 2008, scippata da Obama dopo
un duello durato un anno, la Clin-
ton ha tutte le carte in regola per
aspirare a diventare la prima donna
presidente nella storia degli Usa. È
uscita illesa persino dall’uccisione
dell’ambasciatore americano in Li-
bia. Si era attribuita la colpa della
grave sconfitta alla vigilia del secon-
do dibattito televisivo fra Obama e
Romney e ha lasciato che fosse il
presidente a concederle l’assoluzione
piena, assumendosi, da comandante
in capo, tutte le responsabilità del
caso. La macchina elettorale dei
Clinton è già in moto. Nel 2012,
l’ex presidente Bill Clinton è stato
più attivo che mai nella raccolta di
fondi e di consensi per il presidente
in carica. Spendersi per l’ex rivale
della moglie non è un atto gratuito.
C’è un ritorno preciso: la stessa
macchina, messa in moto nel 2008
e oliata nel 2012, andrà a pieno re-
H
gime nel 2016, quando inizieranno
le primarie democratiche. “Hillary
for President” sarà il tormentone
dei prossimi quattro anni, nonostan-
te Obama stesso definisca “incor-
reggibili” quei giornalisti che lo pre-
vedono già da oggi.
Ma alla fine che cosa resterà del-
l’opera diplomatica di Hillary Clin-
ton? La sua prima foto celebre risale
a quattro anni fa e la ritrae assieme
al ministro degli Esteri russo Sergej
Lavrov. Entrambi sorridenti, pre-
mono simbolicamente un bottone
rosso. Era la politica del “reset” e
restart”: poniamo fine alle nostre
liti (accumulate durante l’era Bush)
e ripartiamo da zero. In parte è sta-
to un successo, perché Russia e Usa
hanno firmato il rinnovo del tratta-
to Start per la riduzione delle testate
nucleari strategiche. Ma per un ac-
cordo rinnovato, ce n’è un altro che
è spirato: Mosca si è ritirata unila-
teralmente dal Trattato per le Forze
Convenzionali in Europa. Lo ha fat-
to in seguito alla decisione Nato di
procedere con lo spiegamento del
nuovo scudo anti-missile. E, dall’an-
no scorso in poi, la Russia si sente
legittimata a schierare nuovi missili
convenzionali (come gli Iskander)
puntati sugli obiettivi della Nato.
La retorica dello stato maggiore rus-
so è attualmente la più violenta dai
tempi della Guerra Fredda. Nessu-
no, prima del 2012, aveva mai più
parlato di possibile “attacco preven-
tivo” all’Europa. Il generale Makha-
rov, comandante delle forze armate,
lo ha dichiarato esplicitamente e
senza mezzi termini pochi mesi fa.
Lo spettro della guerra nucleare tor-
na a manifestarsi: Mosca comple-
terà lo schieramento di missili stra-
tegici di nuova generazione entro il
2018 (
quando lo scudo anti-missile
europeo sarà ancora incompleto) e
ha già messo in mare la prima unità
di una nuova classe di “boomers”,
i sottomarini lanciamissili strategici.
Altro che “reset”! Dopo quattro an-
ni di diplomazia clintoniana, pare
di essere ripiombati nel gelo del con-
fronto Usa-Urss.
L’Iran, nel 2008, era il dossier
più urgente in assoluto. Già allora
i rapporti lo davano per vicino alla
sua prima bomba atomica. Dopo
quattro anni di sanzioni e tentativi
falliti di dialogo, è a un passo dal
diventare una potenza nucleare nel
Medio Oriente. E sì che vi sarebbe
stata un’occasione più unica che ra-
ra per porre fine al problema: la Ri-
voluzione Verde, scoppiata contro
il regime degli ayatollah nell’inverno
del 2009, è stata scientemente tra-
scurata dall’amministrazione Usa.
Si è trattato di una scelta strategica
e non di semplice distrazione: allora,
sia la Clinton che Obama credeva-
no ancora nella possibilità di un
dialogo con il regime di Teheran.
Che non c’è stato. A proposito di
Medio Oriente, la Clinton sarà an-
che ricordata per il naufragio del
dialogo fra Israele e Palestina, in-
terrotto dalle due parti nel 2010.
L’amministrazione Obama si affret-
ta a dar tutta la colpa al governo
israeliano, guidato dal “falco” Ben-
jamin Netanyahu. Ma gli israeliani
hanno qualche ragione dalla loro
parte: si sono sentiti completamente
abbandonati dall’amministrazione
democratica. Hanno continuato a
ricevere aiuti militari dagli Stati Uni-
ti, ma si sono sentiti traditi proprio
nella loro lotta per la legittimazione
internazionale, in tutti i negoziati in
corso. Hanno trovato un’ammini-
strazione ostile sull’unità di Geru-
salemme e inflessibile sui nuovi in-
sediamenti (anche all’interno della
stessa capitale), dunque… non si so-
no più fidati degli alleati americani.
E questo non è tanto un flop del
presidente, né della Difesa, ma pro-
prio degli Esteri. Dunque della
Clinton. Ma forse, sempre restan-
do nell’area del Medio Oriente al-
largato, il più grande insuccesso
della diplomazia americana è quel-
lo che viene vantato come la mi-
gliore vittoria: la Primavera Araba.
In tutti i Paesi che si sono liberati
dai loro dittatori, Tunisia, Egitto,
Yemen e Libia, si stanno insedian-
do nuovi governi fortemente ostili
agli Stati Uniti, oppure regna il ca-
os. La Libia, scenario della tragica
uccisione dell’ambasciatore ame-
ricano Christopher Stevens, non
ha neppure più un governo e le mi-
lizie islamiche spadroneggiano.
Credendo di “guidare dalle retro-
vie” le azioni degli alleati europei
e locali, gli Usa stanno perdendo
completamente il controllo della
situazione. Sembra, anzi, che non
abbiano neppure più una vera e
coerente strategia mediorientale.
E il peggio potrebbe scoppiare
in Asia orientale. La Clinton ha solo
un successo degno di essere vantato,
quello della parziale democratizza-
zione della Birmania. Ma le grandi
e medie potenze regionali (Cina,
Giappone, Vietnam, Indonesia, Fi-
lippine e le due Coree) si armano e
sono pronte a saltarsi alla gola. Il
regime di Pechino è più aggressivo
che mai, pronto ad attaccar briga
per qualsiasi scoglio conteso nel
Mar Cinese Meridionale. La Corea
del Nord si prepara a effettuare il
suo terzo test nucleare, il secondo
da quando c’è Obama. Giapponesi
e sudcoreani si buttano a destra,
eleggendo governi nazionalisti per
difendersi dalle minacce esterne, con
o senza il consenso di Washington.
La patata bollente ora passa a John
Kerry, il nuovo segretario di Stato.
Intanto che la Clinton sarà già im-
pegnata nella sua prossima campa-
gna presidenziale.
Il Mali liberato
dagli jihadisti
Due nuovi conflitti paralleli
devastano ancora l’Egitto
La macchina elettorale
dei Clinton è già in moto
per raccogliere i voti
delle elezioni del 2016
Ma il suo curriculum
è un impressionante
e lunghissimo elenco
di sconfitte diplomatiche
apida avanzata dei francesi
nel Mali. Sabato hanno aiu-
tato l’esercito regolare maliano
nella sua riconquista della città di
Gao, una delle principali rocca-
forti islamiche del Nord. E ieri so-
no arrivati a Timbuktu, occupan-
do l’aeroporto della città e tutte
le sue vie di accesso senza incon-
trare resistenza. Adesso rimane
una sola città nelle mani delle mi-
lizie jihadiste: Kidal, non lontana
dal confine con l’Algeria.
A Gao, così come a Timbuktu,
gli jihadisti di Ansar Dine e del
Mujao (due organizzazioni alleate
con Al Qaeda) hanno evitato ogni
contatto diretto con le truppe
francesi. Si sono ritirati lasciando
una scia di violenze dietro di sé.
A Gao, ad esempio, «Da quando
gli jihadisti hanno preso il potere,
l’economia della città si è fermata
come scrive la professoressa Ka-
rine Bennoune, sul New York Ti-
mes – Ogni giovedì ci sono pro-
cessi farsa in arabo, una lingua
che la maggioranza dei cittadini
non conosce. I fondamentalisti im-
partiscono alla popolazione (che
in gran parte è musulmana) lezio-
ni su “come essere veri musulma-
ni”. Come gli Shebaab in Somalia
e i Talebani in Afghanistan, hanno
costituito pattuglie della moralità
che girano per le strade a control-
lare che le donne siano sufficien-
temente velate e che nessuno pos-
R
sa telefonare peccati al cellulare
con una suoneria proibita. Parlare
a una donna in pubblico è consi-
derato un’offesa al buon costume.
Questo divieto ha scatenato un
terrore tale che alcuni uomini
scappano non appena vedono una
donna comparire all’orizzonte».
A Timbuktu gli islamisti hanno
distrutto tutto quel che potevano.
L’ultimo atto di vandalismo è l’in-
cendio della scuola appena co-
struita dai sudafricani, l’Ahmed
Baba Institute. Ed è ancora fresca
la memoria della distruzione del
portale della storica moschea di
Timbuktu (patrimonio dell’uma-
nità Unesco), oltre che di nume-
rosi luoghi santi dell’Islam sufi.
Non è difficile capire perché la
popolazione delle città, di volta in
volta riconquistate, accolga i rego-
lari maliani e i francesi (gli ex pa-
droni coloniali) scendendo in stra-
da a festeggiare la liberazione. Ma
non è finita qui. L’assenza di una
resistenza nelle città è una buona
notizia oggi, ma è pessima per
l’immediato futuro: vuol dire che
i guerriglieri islamici hanno avuto
il tempo e il modo di disperdersi
nei loro rifugi sparsi in un territo-
rio immenso. Adesso ai francesi
tocca il compito più ingrato: sco-
varli e distruggerli uno per uno,
come in Afghanistan, dove la guer-
ra sta durando da 11 anni.
(
ste. ma.)
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 29 GENNAIO 2013
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