Cronenberg sfida il pubblico

mercoledì 30 maggio 2012


Per uno di quei curiosi giochi del destino, al festival di Cannes 2012 erano in concorso due film molto attesi tratti da due romanzi molto amati: On the Road di Walter Salles, dal capolavoro di Kerouac, e Cosmopolis di Cronenberg tratto dall'omonimo romanzo di De Lillo. Per altro, sono i due estremi del grande mito americano del racconto di viaggio: On the Road ne è evidentemente l'apoteosi, De Lillo invece, e quindi Cronenberg, ne rappresentano invece la parcellizzazione, il suo disfacimento, la sua riduzione ai minimi termini. 

Perché l'epopea beat di Kerouac, la libertà assoluta sullo sfondo della Route 66, in Cosmpolis diventa la costrizione dentro una macchina per percorre con infinita lentezza i pochi chilometri che separano il più ricco degli uomini dal suo barbiere. Un anti-romanzo (nel senso che si dà all'Ulisse di Joyce), così come in un certo senso quello di Cronenberg è un non-film. Perché per adattare quello che è uno dei libri contemporanei meno adattabili in assoluto (un personaggio che non fa nulla, che sa e osserva e interagisce solo attraverso lunghi dialoghi complessi con personaggi ora bizzarri ora inquietanti), Cronenberg si è dovuto svincolare del tutto dallo schema narrativo figlio dei generi che ha caratterizzato sempre il suo grande cinema, dall'horror alla fantascienza, dal noir al melodramma. E allora ecco che l'odissea da fermo di Eric Packer (un Robert Pattinson sorprendente e preso del tutto contro ruolo) diventa la celebrazione dell'incubo americano, la morte dell'utopia e la nascita del fallimento: il libro di De Lillo è del 2000, ma sembra che sia stato scritto ora nel descrivere uno speculatore finanziario che va in crisi quando si accorge di non aver previsto l'andamento dello yuan. Attorno a lui sfila, letteralmente, una rivolta che diventa funerale e poi terrorismo contro un singolo uomo, così se Kerouac nel suo viaggio da un lato all'altro dell'America racconta l'imperituro mito della frontiera e della libertà eccessiva, l'ingorgo che porta al limite dall'altra parte di New York e il simbolo delle carceri mentali, economiche, politiche, umane che ci siamo costruiti tutti i giorni. In 24 ore (108 minuti di pellicola), il film racconta un'intera Apocalisse, partendo dai suoi germi e raccontandone scoraggiato le conseguenze, in un finale lungo 20 minuti di dialogo tra Eric e il suo aguzzino, un favoloso Paul Giamatti. E lo fa in modo costantemente straniato e stranito, per rendere l'impasto grottesco di filosofia e saccenza, di dialoghi altissimi resi ridicoli dal modo in cui i personaggi li dicono. È un film satirico quello di Cronenberg, così come il romanzo, che prende di mira gli imperi degli anni 2000 costruiti sulle informazioni, sul sapere, ma più che altro sul controllo del (proprio) mondo e sulla divinità di cui abbiamo ricoperto il denaro credendoli infallibile, onnipotente. E il controllo del mondo, in questo caso della materia filmica che si ha di fronte, diventa anche il cuore del film, in cui l'uso del dialogo, del campo-controcampo, dei parchi movimenti di macchina, ma anche delle parole e dei gesti degli attori, come divisi "politicamente" in classi, tra chi vuole essere il mondo (la borghesia economica) e chi ne fa solo parte (il popolo, i lavoratori). Cosmopolis non addomestica la materia letteraria, non rende l'Ulisse del 21° secolo qualcosa di accattivante, di "cinematografico" in senso comune, ma spinge proprio sul piede dell'anti-spettacolarità, scava a fondo nei limiti di un soggetto simile e lo riveste a suo modo di puro cinema. Merito del produttore Paulo Branco, nume del cinema d'autore europeo, che ha convinto prima Cronenberg a leggere il libro e poi a realizzarne il film su approvazione dello stesso DeLillo: il suo tocco nella realizzazione di molti dei film di De Oliveira ha investito di leggerezza e densità lo stesso Cosmopolis, come se il corpo del regista canadese, fatto di ossessioni formali (la geometria, la sconfitta della mente contro i bisogni del corpo, il découpage non-narrativo, oltre che anti-classico), si fosse vestito del fecondo e "giocoso" cerebralismo del portoghese. Merito del genio di uno dei migliori registi in attività: il percorso glaciale che dall'epica della nuova carne degli anni '80 è arrivato a quella della nuova mente (Existenz), passando per Crash e Spider e approdando al cuore della società, come nel magnifico A History of Violence, giunge con Cosmopolis al suo capolinea, al fallimento totale di ogni forma di vita o pensiero possibili. E se ci si può lamentare della verbosità dell'insieme, della difficoltà di entrare e capire a fondo il cuore del film, è perché Cronenberg non ha avuto paura di De Lillo, della sua sfida quasi insormontabile, sfidando a sua volta il pubblico. Uno dei motivi per amare Cosmopolis è nel modo in cui il film costringe a pensare, a riflettere sulla forma del film che è anche la sua sostanza. Perché è un film che chiede al suo pubblico di oltrepassare i concetti corrivi e bolsi di racconto, di divertimento o noia: lo obbliga, a meno che non lo si rifiuti - ed è un atteggiamento comprensibile -, a fare i conti con se stesso e coi propri limiti razionali e analitici. Non in nome della poesia pura, come faceva The Tree of Life di Malick l'anno scorso, ma del suo esatto opposto. Durante il dialogo finale, Eric dice «Odio ragionare». E fa suo l'atteggiamento di molti spettatori contemporanei. È su questo odio che si basa il confronto tra Cosmopolis e il suo pubblico. Stando alle reazioni negative di Cannes (e non solo), Cronenberg ha vinto la sfida. E quindi ha perso (gli spettatori). Perciò, tutto calcolato.


di Emanuele Rauco