L'Italia studiata alla John Cabot

venerdì 21 settembre 2012


Uno dei “pezzi di America” nel nostro Paese è sicuramente la John Cabot University, nella quale si respirano Stati Uniti a pieni polmoni pur essendo nel quartiere più caratteristico di Roma, Trastevere. Nel nostro viaggio alla scoperta dei rapporti tra Italia e Usa, incontriamo il presidente dell’ateneo americano, il professor Franco Pavoncello.

Professor Pavoncello, lei è il primo italiano ad essere eletto presidente di una istituzione universitaria americana. 
Sì, credo di essere il primo italiano senza doppia cittadinanza, perché in effetti fra gli italoamericani alcuni già hanno avuto il piacere di presiedere università americane. Sono chiaramente onoratissimo di questa cosa, ma d’altro canto avendo passato dieci anni negli Stati Uniti, in un certo senso una parte importante di me si sente anche americana e così mi considerano in parte coloro che mi conoscono. Sono stato negli Usa dal 1974 al 1984, tra i miei 23 e i 33 anni, e ciò mi ha formato definitivamente e inequivocabilmente. Ho un dottorato conseguito in Michigan e ho lavorato ad Harvard con Robert Putnam. Mio nonno era minatore in West Virginia tra il 1904 ed il 1914, dove arrivò sbarcando a Ellis Island. Sono stato Rettore (Dean of Academic Affairs), alla John Cabot dal 1996 al 2005: quando iniziai c’erano qui 151 studenti, oggi sono 1.200, che è anche circa il numero dei ragazzi che fino ad oggi si sono laureati con noi da quando siamo nati. Sento di dovere tantissimo all’America, un grande e forte paese nel quale si respira libertà, cosa importantissima per i ragazzi che oggi forse lo danno un po’ per scontato. È per questo che qui alla Jcu insegniamo ai nostri studenti prima di tutto ad essere liberi. Sono anche membro del Comitato Direttivo dell’Associazione Amici dell’Accademia dei Lincei, per il quale curo i rapporti con gli Usa, nei quali vorremmo istituire un chapter americano dell’associazione stessa, e sono contento di aver contribuito a far si che la Niaf in occasione del prossimo gala di metà ottobre onori l’Accademia dei Lincei. 

La John Cabot University è uno dei due atenei americani storici in Italia. Siete a Roma, in una bellissima sede a Trastevere. 
La Jcu è autorizzata ad operare come College americano dal 1976. Nel dicembre del 2011 il Ministero dell’Istruzione ci ha confermato che i nostri diplomi possono essere ammessi al fine di accedere alla laurea magistrale (il +2) nelle Università italiane, e anche per i concorsi pubblici. Siamo parte dell’Associazione che riunisce le Università Americane all’estero, la Association of American International College & Universities, che forma circa 100mila studenti ogni anno. Siamo accreditati con la Middle States Association, che è una delle sei istituzioni regionali nelle quali si dividono gli Stati Uniti per la policy di rilascio di diplomi validi per il sistema formativo americano: diversi nostri alunni hanno proseguito gli studi (i cosiddetti Graduate Studies) conseguendo Master’s degree e Ph.D. in alcune delle più prestigiose università americane.

Abbiamo un campus a Via della Lungara, e un altro sul Lungotevere. E abbiamo preso un bellissimo residence di 240 posti per i nostri ragazzi sempre qui a Trastevere salendo verso il Gianicolo.
Abbiamo molti studenti che dopo un po’ di tempo da noi vanno a fare stage in azienda e sono molto apprezzati: i nostri ragazzi vengono da più di 130 paesi nel mondo, e quelli americani provengono da tutti gli Stati Uniti. Abbiamo circa 600 degree seeking students e altrettanti visiting students, che stanno per un semestre (solo il 10% rimane un anno), e puntiamo ad assestarci intorno ai 1.400 alunni. Oggi sono italiane 60 nuove matricole al primo anno, e in totale gli italiani sono circa 250. 

Quali sono le facoltà presenti alla Jcu?
Abbiamo 13 corsi di laurea. I principali sono Affari Internazionali, Business Administration e Communication. Poi abbiamo Storia dell’Arte, Letteratura Inglese con un importantissimo centro per la scrittura creativa in inglese che ha avuto quest’estate come Novelist-in-Residence Joyce Carol Oates, forse la più famosa scrittrice di narrativa americana vivente. Un’altra nostra facoltà molto prestigiosa è quella di marketing: stiamo lanciando un Leadership and Enterpreneurship Institute nel quale crediamo molto al fine di educare i ragazzi a fare impresa. 

Offrite borse di studio?
Sì, abbiamo diverse soluzioni. Gli italiani con 100/100 alla maturità fanno gratis il primo anno da noi, e se poi mantengono una media alta negli anni successivi lo sconto si assesta tra l’80 e il 50%. L’8% del nostro bilancio va in borse di studio. Inoltre, per policy dobbiamo avere ogni anno almeno uno studente completamente spesato dalla John Cabot: quest’anno si tratta di una studentessa del Sud Sudan, alla quale offriamo l’assistenza per i documenti di visto, lo studio, i libri, il vitto e l’alloggio. È una ragazza stupenda e merita decisamente il nostro supporto.

Quest’anno la John Cabot celebra il suo quarantesimo anniversario. Cosa avete organizzato per la ricorrenza?
Faremo un galà a New York il 12 novembre, che sarà un po’ il compimento finale di un anno di celebrazioni. Uno dei punti chiave è stata la laurea honoris causa al Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata. Avremo un presidential gala con gli alumni, sempre qui a Roma, e ci sarà un party per il quarantennale in occasione della election night a inizio novembre.

L’Italia è il Paese non anglofono che attrae il maggior numero di studenti americani. Ogni anno sono circa 35mila. Qual è a suo avviso il segreto di questo successo? 
Credo ci siano più motivi. Certamente, la ricchezza storica e culturale del nostro paese è enorme ed esercita un grandissimo fascino sugli americani: la possibilità di studiare e vivere per un periodo in città straordinarie come Roma e Firenze è una componente fondamentale. Poi c’è anche una grande ricchezza di contenuti educativi: oltre alle due università americane con un proprio campus qui, ci sono circa 150 programmi di altre università americane che ogni anno inviano studenti nel nostro paese. Però non dimenticherei anche la grande capacità di noi italiani ad accogliere lo straniero, di farlo sentire a proprio agio: in questo, devo dire che Roma è magnetica e chiunque ci passi un po’ di tempo finisce per portarsela dentro per sempre.

Se le chiedessimo una cosa, nel mondo dell’educazione e della formazione, che l’Italia dovrebbe imparare dagli Usa, e una che invece potremmo insegnare loro, cosa ci direbbe?
Indubbiamente il sistema universitario americano è uno dei grandi elementi di successo degli Stati Uniti. Il concetto di università secondo lo schema delle arti liberali tipicamente statunitense si sta affermando anche in Italia e un po’ ovunque nella società globale di oggi. Dal punto di vista del percorso inverso, è molto importante l’attenzione italiana al livello di educazione primaria e secondaria: forse c’è una preparazione più approfondita nelle più giovani età, in Italia, rispetto a quanto accade negli Usa, dove c’è un approccio molto pratico e meno teorico. È un discorso generale, ma forse di media la capacità analitica dei ragazzi italiani che escono da buoni licei del nostro paese è leggermente superiore rispetto a quella dei loro corrispettivi americani. Tutto sommato qui alla Jcu verifichiamo come sia vincente il modello che vede uno studente con una formazione di tipo italiano fino alla educazione secondaria, che poi prosegue con un imprinting universitario di modello americano. Una delle cose importanti che ci differenzia forse da alcune università italiane, è la struttura e la tempistica degli studi: finire in 3 anni piuttosto che in 5/6 significa avere un approccio dinamico verso le opportunità che la giovane età incrocia, le occasioni che la vita mette davanti ai ragazzi. Alla John Cabot gli studenti sono molto seguiti e anche per questo si riesce a non perdere il ritmo che prevede l’uscita dopo i tre canonici anni, evitando così il fenomeno del parcheggio delle menti all’università che produce frustrazione e guai. Un altro elemento che ritengo sia parte fondamentale del successo del sistema americano è quello del costo delle rette: l’impegno è quasi sempre proporzionale al dispendio affrontato per laurearsi, e siccome il secondo non è mai basso anche il primo è alto e forma professionisti capaci ma anche allenati a lavorare duramente per meritarsi il successo. Nel sistema italiano forse le basse rette per tutti – che comunque generano costi nascosti in termini di tassazione spalmata su tutta la popolazione – non aiutano a spingere i ragazzi ad impegnarsi: alcuni ovviamente lo fanno, ma il sistema fa poco per spronarli e accendere un po’ di sana competizione.


di Umberto Mucci