La letteratura italiana del '900

Lo scrittore italiano che, con la sua opera letteraria e artistica, forse meglio di chiunque altro, ha rappresentato e messo in scena il Novecento è, in realtà, un uomo rimasto agganciato all’Ottocento: Luigi Pirandello. Nella letteratura pirandelliana, infatti, emergono con chiarezza le contraddizioni del secolo scorso, la modernità, la contemporaneità, il peso dei condizionamenti esterni che gravano sulle persone in maniera oppressiva, la cappa di piombo della repressione ambientale che conduce il singolo alla fuga dall’ingranaggio del mondo reale o al rifiuto di un sistema non più sopportabile e che conduce alla follia come ultima, estenuante difesa.

Il teatro nel teatro, le maschere degli individui, l’umorismo, il monologo interiore, la verità come una corda tesa che a pizzicarla si rischia di passare per pazzi. Questo è il Novecento. Questo è Pirandello. Il tutto descritto come all’interno di un processo dominato da un giudice invisibile, interiore, venuto ad alimentare un conflitto tra accusa e difesa che si può giocare soltanto in un tribunale immaginario, in un testo teatrale o in una novella. Ma l’uscita dal conflitto necessita soluzioni estreme, come quella di chiedere la patente di iettatore pur di sopravvivere a una certa stupidità della burocrazia o alle stolte etichette di una società in cui l’individuo oppresso e schiacciato si ritrova ad avere, allo stesso tempo, “uno nessuno e centomila” personalità diverse. E proprio la fuga dalla realtà, risolta con una qualche forma di pazzia, si ritrova anche nei versi di alcuni poeti che hanno fatto la letteratura italiana del Novecento. Mi riferisco ad Aldo Palazzeschi e a Dino Campana. Il primo è un clown della scrittura, con i suoi «lazzi, frizzi, girigogoli e ghiribizzi».

Uno poeta dentro il Novecento che mette da parte qualunque malinconia e si diverte a indossare la sua maschera per meglio deridere la sua condizione e i suoi condizionamenti. Palazzeschi, infatti, si prende gioco del sistema vestendosi da pagliaccio, da funambolo, da circense della parola, da equilibrista in cammino sul filo dell’ironia, dello scherzo, dello scherno. Insomma, Palazzeschi è un poeta che, per quello che scrive e per come lo scrive, sembra aver trovato il suo baricentro, cioè la sua fuga dal sistema, in quello che lui stesso definisce l’anti-dolore, lo sberleffo, l’uomo di fumo, Il Codice di Perelà o quando toglie qualsiasi aurea alla figura del poeta definendosi con le seguenti testuali parole: «Io metto una lente davanti al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia». Anche Dino Campana incontra la pazzia, la pazzia del Novecento, ma è per lui un approdo quasi tragico, tormentato, maledetto. La fuga dalla realtà conduce Campana verso una poesia che diventa tutto, totalizzante, che racchiude l’intera sua esistenza, in stretta sintonia con la vita, trasformando la poesia nel fine stesso della sua vita. I Canti Orfici raccolgono, infatti, un’aspirazione universale, transnazionale, senza limiti. Campana è il nostro Rimbaud, ha l’ebbrezza visionaria di chi ha imboccato la strada di una ricerca senza fine. E si perde. 

 

POKER D’ASSI

Lo ammetto: ho in mano un Poker d’Assi. Ci sono quattro scrittori che rappresentano i quattro punti cardinali della letteratura italiana del secondo Novecento. Insieme o separati, questi quattro grandi autori, sono l’azimuth con cui poterci orientare per uscire finalmente dalla crisi politica di questi anni. Sono il Nord, Sud, Est e Ovest di una bussola immaginaria che porto sempre con me. Sono i principali rappresentanti dei quattro elementi di cui è composta la materia letteraria, civile e culturale italiana della seconda metà del secolo scorso. Sono Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Italo Calvino e Carlo Emilio Gadda. Sono da leggere e rileggere. Sono Acqua, Fuoco, Aria, e Terra. Oggi andrebbero riscoperti come riferimenti politici per capire la realtà odierna, la crisi che viviamo, le prospettive possibili per il futuro. Leggerli significa capire, comprendere, intuire. 

Pier Paolo Pasolini è il genio, la profezia, l’intuizione pura. Se fosse uno dei quattro elementi individuati da Aristotele, sarebbe l’Acqua. Nella letteratura italiana del Novecento, Pasolini rappresenta il mare, le onde, la “pantalassa”. L’autore degli Scritti corsari e delle Lettere luterane ci ha regalato pagine così pure e dirompenti che sembrano nate o sgorgate dall’acqua. Ogni sua pagina è sempre sorgente di idee, fonte di ispirazione, energia fondatrice, elemento dinamico che scorre come un fiume e arriva fino a noi, raggiunge il lettore, lo inonda, lo può travolgere o far rinascere. L’opera di Pasolini è così: irrequieta, purificatrice, finanche distruttrice, dolce e salata, confinata e infinita, non ha inizio e non ha fine, anzi: è inizio e fine allo stesso tempo, tutto abbraccia e tutto rigenera. L’arte di Pasolini, dal cinema ai romanzi, dalla poesia agli articoli, è impregnata dall’elemento dell’Acqua, esprime l’anima del mondo, è “Mamma Roma”, “Passione e ideologia”, “Empirismo eretico”. Insomma, la scrittura di Pasolini non è statica, ma trasforma, purifica, prevede. È vita.

Leonardo Sciascia, invece, è il ragionare, la conoscenza, la ricerca della e delle verità. Seppur nella sua calma, nella sua apparente pacatezza, nella sua proverbiale lentezza, Sciascia ha sempre espresso passione civile, intelligenza sopraffina, ardore politico, fermento culturale e intellettuale. Infatti, la materia che scaturisce dalla scrittura del maestro di Racalmuto è sempre illuminante, accesa, spesso scottante, mai banale. Nella letteratura italiana del secolo scorso, se lo si dovesse paragonare ad uno dei quattro elementi aristotelici, Sciascia sarebbe il Fuoco. Lo scrittore siciliano, infatti, utilizzava la menzogna della letteratura per far emergere quelle verità indicibili o non dette che aprivano squarci di luce nel buio più pesto. La sua scrittura è energia motrice ed attiva, è la cosa che più si vicina all’azione.

Italo Calvino è la leggerezza, la fantasia, la scrittura tout court, lo scrivere bene, fino in fondo e con semplicità. Non a caso, è stato definito “lo scoiattolo della penna”. I suoi libri sono caratterizzati da un italiano scritto a cielo aperto, chiaro, a perdita d’occhio. La sua scrittura è scorrevole, intelligente, intensa, che sembra quasi di attraversarla in volo, magari planando tra “cosmicomiche” e “città invisibili”, così da rasentare “il sentiero dei nidi di ragno” o librarsi sulla “giornata di uno scrutatore” e finire tra “i destini incrociati” per scoprire “i nostri antenati”. La lettura di Calvino è un respiro a pieni polmoni, un modo per ossigenare il cervello, per dare ampio spazio all’immaginazione, al sogno, allo sguardo lungo, alla mente aperta. Se fosse un elemento, Calvino sarebbe l’Aria, cioè la forza vitale. Carlo Emilio Gadda è il linguaggio, l’uomo e il suo contatto con i ciottoli della strada, con la vita onesta e disonesta, con l’esperienza visibile, con il dolore, il delitto, la paura, l’amore. La sua opera più conosciuta e apprezzata è il romanzo intitolato Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, del 1957, da cui Pietro Germi trasse anche la sceneggiatura del film Un maledetto imbroglio. Insomma, la scrittura di Gadda rappresenta l’indagine della parola, l’uso del gergo, il groviglio linguistico, l’intreccio narrativo, l’imbroglio di frasi da sciogliere come si scioglie il “caso” di un libro giallo. L’elemento di Gadda è la Terra, cioè la sua scrittura è fertile e creativa, capace di essere sperimentale, nutriente e naturale, anche quando appare ricercata.  

LA “CORDA PAZZA”DEL NOVECENTO

«Abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza. Soprattutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui sta qua, in mezzo alla fronte. Ci mangeremmo tutti, signora mia, l’un l’altro, come tanti cani arrabbiati. Non si può... Ma può venire il momento che le acque s’intorbidano. E allora... allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr’otto, senza tante storie, quello che devo. Che se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio!». E’ una spiegazione fulminante che ci viene dal teatro. E’ quanto si legge in una battuta tratta dalla commedia Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello. Infatti, la “corda pazza” è quella senza ipocrisie, senza maschere, l’attimo di verità, di sincerità, di follia. Per questo motivo, lo scrittore italiano che, con la sua opera letteraria e artistica, forse meglio di chiunque altro, ha rappresentato e messo in scena il Novecento è, in realtà, un uomo rimasto agganciato all’Ottocento, cioè Luigi Pirandello. E il tema della “corda pazza” sarà ripreso molto più tardi anche da Leonardo Sciascia proprio per descrivere e far comprendere al meglio che cosa siano il nostro Paese, il Novecento e la Sicilia. Nella letteratura pirandelliana, infatti, emergono con chiarezza le contraddizioni del secolo scorso, la modernità, la contemporaneità, il peso dei condizionamenti esterni che gravano sulle persone in maniera oppressiva, la cappa di piombo della repressione ambientale che conduce il singolo alla fuga dall’ingranaggio del mondo reale o al rifiuto di un sistema non più sopportabile e che conduce alla follia come ultima, estenuante difesa. Il teatro nel teatro, le maschere degli individui, l’umorismo, il monologo interiore, la verità come una corda tesa che a pizzicarla si rischia di passare per pazzi. Questo è il Novecento. Questo è Pirandello. Il tutto descritto come all’interno di un processo dominato da un giudice invisibile, interiore, venuto ad alimentare un conflitto tra accusa e difesa che si può giocare soltanto in un tribunale immaginario, in un testo teatrale o in una novella. Ma l’uscita dal conflitto necessita soluzioni estreme, come quella di chiedere la patente di iettatore pur di sopravvivere a una certa stupidità della burocrazia o alle stolte etichette di una società in cui l’individuo oppresso e schiacciato si ritrova ad avere, allo stesso tempo, “uno nessuno e centomila” personalità diverse. E proprio la fuga dalla realtà, risolta con una qualche forma di pazzia, si ritrova anche nei versi di alcuni poeti che hanno fatto la letteratura italiana del Novecento. Mi riferisco ad Aldo Palazzeschi e a Dino Campana. Il primo è un clown della scrittura, con i suoi “lazzi, frizzi, girigogoli e ghiribizzi”. Uno poeta dentro il Novecento che mette da parte qualunque malinconia e si diverte a indossare la sua maschera per meglio deridere la sua condizione e i suoi condizionamenti. Palazzeschi, infatti, si prende gioco del sistema vestendosi da pagliaccio, da funambolo, da circense della parola, da equilibrista in cammino sul filo dell’ironia, dello scherzo, dello scherno. Insomma, Palazzeschi è un poeta che, per quello che scrive e per come lo scrive, sembra aver trovato il suo baricentro, cioè la sua fuga dal sistema, in quello che lui stesso definisce l’anti-dolore, lo sberleffo, l’uomo di fumo, Il Codice di Perelà o quando toglie qualsiasi aurea alla figura del poeta definendosi con le seguenti testuali parole: «Io metto una lente davanti al mio cuore per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell’anima mia». Anche Dino Campana incontra la pazzia, la pazzia del Novecento, ma è per lui un approdo quasi tragico, sicuramente drammatico, tormentato, maledetto. La fuga dalla realtà conduce Campana verso una poesia che diventa tutto, totalizzante, che racchiude l’intera sua esistenza, in stretta sintonia con la vita, trasformando la poesia nel fine stesso della sua vita. I Canti Orfici raccolgono, infatti, un’aspirazione universale, transnazionale, senza limiti. Campana è il nostro Rimbaud, ha l’ebbrezza visionaria di chi ha imboccato la strada di una ricerca senza fine. E si perde.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:28