Viaggio ad Istanbul nel libro di Özpetek

Dov’è “L’Altrove”? “Spesso è dove già siamo, e possiamo trovarlo solo se abbiamo la forza di affrontarlo”. Così, conclude il suo primo libro/romanzo autobiografico “Rosso di Istanbul” (Mondatori) il regista italo-turco Ferzan Özpetek, romano di adozione. Un’opera prima che lega un diversamente scrittore agli spazi interiori ed esteriori di un vissuto dalle mille trame, ora raccontato attraverso tutta la propria esperienza sensoriale (gli odori, i colori, il gusto, le sensazioni tattili percepite attraverso la scoperta dei corpi), ora filato in una trama sottile, apparentemente disarticolata e sfibrata in più punti, lasciando che a parlare del passato siano voci non più giovani, a un passo dal commiato finale.

E tanti, molti rossi, nel suo ritorno da artista famoso nella Istanbul natìa, percorsa e percossa dai fremiti di una corrente rivoluzionaria pacifica, che rivendica la conservazione della propria storia, contro gli abusi e l’aggressione degli “sbancatori” di futuro, che svuotano i giacimenti culturali turchi per far posto alle cattedrali dei nuovi consumi di massa. Rosso, come i carrettini dei venditori ambulanti di ciambelle. O come quello dei vecchi tram ormai scomparsi. Per non parlare dei piattini fiammanti da tè, rosso arancio, o delle unghie laccate di una madre molto in là con l’età.

E la cornice in cui si muovono i personaggi ricorda il quadro “Rosso nella rete” di Kandinskij, catturato in Piazza Taksim, in cui risalta un abito rosso-bandiera, tamburino militante, che dà il ritmo ai mille colori della protesta studentesca appena sbocciata. Amore e Morte giocano a scacchi, nel fluire del racconto, come nel caso dell’incontro, casuale e fugace, del regista con il tenerissimo primo amore della sua vita, Yusuf, suo compagno undicenne di scuola: quel rapporto improvvisamente e irrimediabilmente spezzato dall’ira paterna. Poi, il suicidio inspiegabile di Yusuf, subito dopo quel ritrovarsi imbarazzato a Istanbul, dopo tanti anni. Psiche e Tanatos, intrecciati e costantemente alternati, incarnati in volti casualmente sfiorati nel viaggio di andata, che diventano i protagonisti inediti del racconto, dividendosi tra obitorio e hotel di lusso.

Figure eteree, appena sfiorate, che fuggono in camicia da notte lungo strade sconosciute, per finire nei vapori dell’hamam (il bagno turco), allacciandosi a braccia nuove, giovani e leggere. Quelle spire di forza vitale che servono a correggere il deragliamento irreversibile di una vita vissuta nell’illusione, nella dedizione per l’altro, senza mai accorgersi del tradimento, la cui rivelazione arriva nel modo più banale possibile, illuminando la macchia cieca della psiche, che non ne conosceva l’esistenza. La differenza d’età svela un intenso gioco di luci e acqua: quello della vecchia madre e del fisioterapista, tenero e premuroso; quello del giovane studente Murat, che si sostituisce alla “fede” ripudiata da Anna, offrendole la sua leggerezza d’amore, per un pegno temporale ed effimero; quello dello stesso autore, per il suo giovane compagno, che l’attende paziente nella Città Eterna.

Poi le anziane zie, delle quali ci restituisce i suoi ricordi di bambino agiato, tutto giocato sui sottintesi della sensualità e dell’avvenenza, di quelle donne ancora giovani, translucenti di amori appena tratteggiati, riflessi nella toletta narcisistica dei trucchi da borsa, che profumano di cipria e rifuggono i contenuti dei legami più solidi di coppia, come il matrimonio e la famiglia. È la splendida zia Betul, che ne consola con mille delicatezze e attenzioni le scheggiature della solitudine infantile, provocate dalla lunga assenza paterna, insegnandogli a costruire e far volare gli aquiloni, perché un “uomo che non riesce a farne volare uno, non è in grado, poi, di fare felice una donna”.

La zia Güzin, diabetica e trasgressiva, che riceveva i suoi amanti in casa, salvo poi gridare “al ladro!”, per offrire un alibi alla tresca. Forte, ma allo stesso tempo fragile e delicato è il ricordo struggente di una madre giovane e bellissima, sposata due volte, figlia di una “principessa ottomana”, a sua volta moglie di due pascià, che dava ordini al personale di servizio battendo le mani, e fumava tenendo il lungo bocchino d’argento infilato a un anello per non macchiarsi di nicotina. Quella madre che sa opporsi, con forza, alla discriminazione e ai pregiudizi, iniziandolo alle più sane categorie del dubbio, per la difesa delle minoranze perseguitate e demonizzate dalla propaganda politica, come armeni e greci, perché “non ci sono vinti o vittime, dove c’è chi si batte per i diritti degli altri!”. Altrettanto teso ed efficace è lo sguardo a ritroso sulla bellissima sorellastra, diventata una nota attrice turca.

Poi una carrellata, rapida e impressiva, come il “pointillisme” di Seurat, sui diversi aspetti e volti della Turchia di oggi, vista da Istanbul, preda di una neo-colonizzazione che viene dalla globalizzazione, e inghiotte nell’indifferenza il suo passato urbanistico (il vecchio cinema, le case di legno sul Bosforo, la bella villa bianca dei genitori di Ferzan, e quella dei vicini greci in rovina), difeso disperatamente dai giovani di Gezi Park. Insomma, un libro affascinante, un bel racconto autobiografico che, come un tappeto volante, spesso e leggero, ci aiuta a viaggiare dal Mediterraneo verso i colori rosso-blu del Bosforo e del Mar di Marmara. Per non farci dimenticare che viviamo tutti sotto la stessa volta celeste!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:36