Ida, film gioiello di Pawlikowski

Nel circuito romano delle sale cinematografiche è approdata “Ida”, la pellicola girata nel 2013 dal polacco Pawel Pawlikowski. Nel cast le bravissime Agata Trzebuchowska (nella parte della protagonista Ida), e Agata Kulesza (zia Wanda), già procuratore, poi giudice del regime comunista e prima ancora capo partigiano durante la guerra di liberazione dal nazismo.

La storia, raccontata più con i silenzi che con le parole, è asciutta ed essenziale, come il velo scuro e pesante delle suore. Ida è una novizia molto bella che sogna il giorno della sua consacrazione, imbevendosi del culto della devozione e dell’obbedienza all’interno di un mondo fiabesco, ma del tutto reale, come certificano le austere facciate del complesso conventuale femminile e la statua del santo, conficcata in una desolata terra arida, vere isole cristiane nel deserto ateista del regime comunista polacco degli anni Sessanta.

L’esaltazione del carattere fermo e tranquillo di Ida, soprattutto nei suoi rapporti con la zia, è affidato alle rare scene di socializzazione conventuale (più volte appare la disposizione austera e spartana della mensa che separa le novizie dalle suore consacrate), come quella della preghiera pancia a terra e catena di mani tra le novizie stesse, a simboleggiare passione, fede e sottomissione. Ma il vero protagonista è costituito dal paesaggio urbano, rappresentato dai piccoli spazi dei quartieri cittadini di allora. Le atmosfere plumbee del film esaltano tutto lo squallore della rassegnata drammaticità esistenziale, di cui è profondamente intrisa la descrizione dei dettagli e dei ritagli di vita della Polonia dell’epoca, restituiti silenziosamente dalle minuziose, impietose riprese della pellicola in bianco e nero. Negozi miserabili, poco più di baracche precarie che si affacciano su marciapiedi dissestati e sulle scarse strade scalcinate. Per non parlare delle rare autovetture che si vedono in strada, partorite da una tecnologia industriale del tutto obsoleta! Pianerottoli, porte d’ingresso delle abitazioni, facciate esterne e parti comuni delle case popolari lasciati marcire senza alcuna cura; così simili agli immobili precari degli slum che affollano le più derelitte megalopoli urbane del mondo moderno. Sono queste le brutture e le miserie, fisiche e spirituali, dei regimi del socialismo reale dell’epoca, come quello polacco, che Ida si trova ad attraversare senza mai alcun commento da parte sua, abituata al nulla e alla totale povertà materiale delle mura linde del suo convento. Nondimeno, la denuncia socio-politica del regista, in merito, è netta e priva di compiacimento.

Allo spettatore occidentale sono riproposte, spietatamente, le condizioni derelitte del popolo polacco di allora. La grande precarietà di alloggi senza dignità, in base agli standard occidentali, è denunciata dall’assenza di adeguati spazi vitali e dall’aridità estetica e tecnologica delle suppellettili. Pochi metri quadrati per i meno abbienti (ma il grande appartamento abitato da Wanda, la zia di Ida, sorella della madre, non scherza nemmeno, quando le immagini si attardano a descrivere una cucina che anche i nostri contadini degli anni Cinquanta del secolo scorso avrebbero disdegnato!). Sono questi i veri effetti speciali del film, che penetrano i sensi dello spettatore, fino a originare in lui un sentimento d’impercettibile nausea, di distonia esistenziale, soprattutto nei confronti di un’ideologia che riteneva di poter realizzare una sorta di paradiso socialista in terra, sconfiggendo per sempre i demoni del capitalismo e del consumismo. Dove è palese nelle persone - anche per i famosi “servitori dello Stato socialista”, come i poliziotti - la condizione interna di disarmo mentale ed esistenziale: le pianificazioni e produzioni centralizzate hanno fatto mancare stimoli individuali essenziali e ogni sorta di beni di consumo, la cui assenza ha reso deprimente, per sessant’anni, la vita quotidiana dei cittadini comunisti dell’Europa dell’Est.

La ricostruzione di quella povertà, urbana ma soprattutto rurale, è il tratto più sconvolgente, per chi (come quelli della mia generazione) quegli anni li ha vissuti nell’esaltazione e nei lussi crescenti del boom economico italiano. Compaiono nel film solidi riferimenti alla trattazione bergmaniana dei personaggi, che si fa ricordare per le tecniche lente e semiossessive delle riprese, con particolare riferimento ai primi piani, sempre spietati, senza aggettivazioni accattivanti. Interessante, in particolare, è la descrizione della gestualità misurata di Ida e della passione volutamente contenuta del giovane sassofonista, imbarcato come autostoppista in uno dei tanti viaggi alla ricerca del passato di zia e nipote.

Specialissima e degna di nota è, poi, l’introspezione della colpa: quella di Wanda, che rinuncia per la causa comunista al figlioletto, e quella compressa nella terribile confessione dell’autore dell’eccidio. Lui che quasi si auto-seppellisce vivo in quella stessa fossa utilizzata per occultare le vittime del suo terribile delitto. Tra i poveri resti riportati alla luce, il piccolo teschio di un bimbo di pochi anni, che la giudice zia aveva affidato alla sorella al momento di darsi alla macchia con i partigiani polacchi. Il bambino era stato soppresso senza pietà, assieme alla madre e al padre di Ida, di nome e origine ebraica, dopo essere stati nascosti nella foresta dai loro carnefici, che prima hanno fatto finta di proteggerli, per poi massacrarli impunemente appropriandosi di tutte le loro proprietà (terre e casa di campagna).

Nel svolgere la sua tela di dolore, con colpi cadenzati ravvicinati e bruschi, il regista amalgama, nel mortaio delle storie e del vissuto personale, il senso terribile di colpa che sconvolge in forma viscerale l’esistenza tormentata della zia, unica parente di Ida, da lei riscoperta a… “viva forza”. Infatti, la madre superiora, ben al corrente di come stessero le cose, obbliga la novizia a conoscerla, prima della sua consacrazione, malgrado che la stessa zia si sia sempre rifiutata di andare a trovare la nipote e di prenderla con sé, dopo che la bimba era stata affidata -dall’assassino dei suoi genitori - a pochi anni di vita, al curato di campagna, e da questo alle suore. Bellissima, come un ritratto impressionista/cubista, è la sequenza di rifiuto, pentimento e accoglienza che la zia, dura, libertina, accanita fumatrice e alcolista (strumenti di un progressivo cammino di autodistruzione che, immancabilmente avverrà con una descrizione gelida della scena finale, cui fa da contrasto un bellissimo pezzo di musica classica) riserva a Ida. Prima espulsa, poi immediatamente dopo ricercata, perché assieme le ultime due eredi di un passato familiare, massacrato dagli uomini e dalla storia, possano dare, finalmente, degna sepoltura, in un cimitero ebraico abbandonato, ai resti dei loro cari.

Dopo la drammatica scomparsa della zia, ricordando le sue parole, “Ma come fai a scegliere, se non conosci ciò cui rinunci?”, Ida dà spazio all’unica passione giovanile della sua vita, prendendo la sua decisione definiva, che ruota sull’interrogativo ripetuto “E, poi?”. Un vero film per intenditori.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:28