Montanelli e la retorica   delle poche speranze

Capire l’Indro, per chi c’è stato, non è stato semplice. Alla fine si è rivelato impossibile. Quelli che c’erano, fin dalle scuole dell’obbligo, avevano trovato nei libri storici di Montanelli un’alternativa ai programmi scolastici.

Allo sguardo oggi lontano dagli anni dell’adolescenza, quei volumi non appaiono più tanto positivi. In fondo le tante Storie d’Italia, scritte dal giornalista toscano, in tandem con Gervaso e Cervi, avevano sempre il comun denominatore di rendere tutti re, guerrieri, dei, santi, monache, politici, musicisti, donne di ferro. Un’indistinta massa piena di buona volontà e di tanti difetti sui c’era solo da sorridere. Quelli che c’erano allora non capivano il perché; né i loro padri, zii e nonni si guardavano bene dallo spiegare.

Come tutta la classe dirigente italiana del secondo dopoguerra – e con lei il ceto medio-alto – Montanelli viveva il trauma del tracollo dell’orizzonte sociale e politico, non solo di pensiero ma soprattutto di ruolo, in cui si era formato. Si era trovato membro della prima e unica generazione dell’Italietta cui fosse toccato un vero primato internazionale da esercitare. L’Indro riuscì a gustarne tutti i frutti, dal piccolo harem kiplinghiano in Etiopia, del cui conflitto fu giovane comandante, inviato, scrittore. E poi propagandista alle corrispondenze di guerra in Spagna, Albania, Polonia, Estonia, Finlandia, Norvegia, Francia, di nuovo Albania e Balcani.

In un Paese largamente analfabeta, il figlio del preside crebbe da piccolo personaggio di provincia, viaggiatore di livello quando i connazionali erano miseri emigranti. Furono le migliori teste della cultura e della stampa fasciste – i Berti, Ojetti, Maccari, Longanesi, Bottai – a dargli una mano. Le guerre, facili e vinte sulla carta, interpretabili anche senza nessun senso militare, erano state il grande contesto umano e politico che avevano esaltato Montanelli, che nelle corrispondenze si era elevato ai massimi vertici, libero di dire e agire, sempre ben inserito nella dignità del suo Paese.

Dopo la guerra, nella classe dirigente italiana, testimone del suo completo e ingiustificabile fallimento, si diffuse la più grande diffidenza per qualunque forma di leadership individuale e per qualunque scelta che andasse appena oltre le righe. Sarcasmo, ironia e incredulità furono parole d’ordine tacitamente accolte da tutti, cui si mescolò la necessità di trovare nei vent’anni precedenti di completa adesione al fascismo i segni, i semi, i fantasmi di idee e intenzioni contrarie.

Tornato dall’esilio volontario, Montanelli fu epurato come fascista dal “Corsera” per decisione del corsivista comunista Fortebraccio, che negli anni a venire sarebbe divenuto famoso per elziviri che suonavano da campane a morto contro chi erano dirette. Non c’è da meravigliarsi per la decisione né sorprende l’antitesi delle documentazioni di antifascismo che era riuscito a produrre. Nell’Italietta di sempre, comunque, Montanelli che era ormai un nome, proseguì a scrivere proprie rubriche fino a cominciare l’avventura di storico e poi fondare il primo giornale di destra dell’Italia moderna. Destra, qui, è forse una parola troppo grossa.

Bisogna intendersi su cosa fosse la destra di – e per – Montanelli. È una bella bugia l’affermazione di Travaglio, vero usurpatore dell’eredità indresca, relativamente alla liberale equidistanza di Montanelli tra destra e sinistra. Umiliato, rassegnato alla misura delle parole, collaboratore in sordina de “Il Borghese”, impegnato a mettere in burla quanto aveva fatto e creduto nell’epoca eroica, il leone non transigeva sull’anticomunismo per il quale poteva contare almeno sulla benedizione americana. L’Indro era chiaramente anticomunista, nel tempo in cui la sinistra era il Partito comunista italiano.

Gli anni di piombo gli offrirono la possibilità di manifestare la sua idea di destra contro lo scivolamento verso il blocco sovietico, contro la credulità mitica dei complotti di Stato, contro il collettivismo intellettuale. Quella destra, riunita attorno a “Il Giornale” è l’animo di destra prevalente tutt’oggi in Italia. Un animo che non corrisponde a quello qualunquista, né democristiano, né missino, né monarchico, né liberale. Per capirlo, basta scorrere i nomi delle collaborazioni straniere de “Il Giornale”: Ionesco, Burgess, Galbraith.

E i nomi della squadra montanelliana non sono da meno: l’ex nazionalista Granzotto, il Bettiza malagodiano poi craxiano, il nobile romanziere Piovene. Nelle diverse posizioni, tutti anticomunisti e anticattocomunisti, tutti sostenitori della libertà, difesa a seconda dei casi, con un po’ di statalismo e di orgoglio nazionale. Tutti con qualche scivolone, cui non davano troppo peso da farsi perdonare, nel nazionalismo, nell’antisemitismo e nel razzismo. Tutti con l’idea inconfessata che il Ventennio per l’Italia rissosa e disgregata era stata un’esperienza in gran parte assimilabile al conservatorismo dei migliori paesi. Montanelli rappresentava questo esprit di destra.

Da questo spirito il cui acme è il sostegno nelle elezioni del 1976 a De Carolis, esponente milanese della Democrazia cristiana di destra, l’ultimo Montanelli si separa del tutto. L’uomo che ben aveva espresso l’animo dei moderati italiani del “turatevi il naso e votate Dc”, l’uomo che aveva paragonato le campagne giudiziarie contro i politici governativi a quelle repressive sovietiche, non mantiene più lo stesso atteggiamento di fronte a Mani Pulite e alla nascita di Forza Italia. Forse non considera più necessario l’anticomunismo che l’aveva sempre guidato. Oppure più probabilmente scatta la diffidenza della sua generazione riservata ai leader anticomunisti troppo autoritari, il cui avvento rischia di produrre l’effetto contrario.

Il giovane romanziere Paolo Di Paolo ha scritto già due libri sul giornalista Montanelli, partendo dalle tante lettere inviategli nei suoi ultimi dieci anni di vita. Ora presenta “Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era”, con un ritratto umano condiviso da Tajani, Mieli e Travaglio. C’è il rischio che a chi non c’era, malgrado le intenzioni contrarie, sia consegnato un monumento contrario all’opera di una vita.

Montanelli, un nome se lo fece durante il Fascismo. Se lo riprese nella coraggiosa esibizione di anticomunismo de “Il Giornale”, foglio degli appestati, la cui sede a piazza Cavour – racconta il giornalista Vergani – “è spesso presidiata da migliaia di extraparlamentari: giorno e notte. (Di cui) Ho una sana, autentica paura”.

Divulgata dal Montanelli storico, “La retorica dell’antiretorica” ha annacquato i riferimenti per l’opinione pubblica raccolta attorno a libertà e anticomunismo. L’ideologia della generazione Montanelli non se l’è sentita di sostenere una coerente azione politica. Per chi c’era, quell’esprit lascia un’eredità di separazione non consensuale tra pensiero e azione, che offre speranze solo ai suoi nemici.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:28