Quel che sapeva Maisie   Una lezione di vita

Che cosa può sapere una bambina di sette anni? Tutto quello che noi, emotivamente, non sappiamo, direi. Il film, detto in sintesi, è bellissimo. La piccola protagonista (nelle varie scene, che la vedono indagata da una macchina da presa assidua e fedele, come un gigantesco alano) è un gigante dell’espressività emotiva di un’infanzia indifesa, che accumula passioni di non detto, concentrate in delicatissime modalità mimiche, evidenziate da lineamenti dolcissimi.

Un viso, quello di Maisie, che plana con una deliziosa e delicata silenziosità sui fragori più ingombranti, che affollano la confusa, perennemente litigiosa vita di coppia dei suoi sciagurati genitori.

Il film è liberamente tratto dal romanzo dello scrittore statunitense Henry James, che lo pubblicò, inizialmente, a puntate su di una rivista letteraria e, successivamente, in un volume del 1897. Trenta anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1916, la sua opera è divenuta famosa, grazie alle produzioni cinematografiche, che hanno portato sugli schermi testi complessi, come, tra gli altri: “The Golden Bowl”; “The Portrait of a Lady”; “The Altar of the Dead” (messo in scena da Truffat, con il titolo di “The Green Room”).

Nel romanzo originale “What Maisie knew”, il racconto trae spunto da una storia vera, incentrata sulla così detta “disfunzione familiare” (una vera novità per l’epoca, agli albori delle conquiste della psichiatria) di una coppia vicina al divorzio, in lotta senza esclusione di colpi per l’affidamento della piccola Maisie, costretta a fare la navetta, ogni dieci giorni, da un genitore all’altro. Nel racconto di James (che risente, nei suoi passaggi chiave, dei rivolgimenti di una società formale ormai al tramonto), la storia si svolge in epoca vittoriana, e ha come soggetto la rottura del matrimonio tra Ida e Beale, due persone della media borghesia, ai quali viene affidata la custodia congiunta della figlia di sette anni, Maisie. Ida rappresenta la bellezza indecente, secondo i canoni vittoriani dell’epoca, e lui un indolente diplomatico a riposo. Ambedue i genitori, di lì a poco si risposano. Beale va a nozze con l’ex babysitter di Maisie, mentre Ida convola con un evanescente, simpatico aristocratico, Sir Claude. L’inconsistenza tutoriale dei due genitori naturali spingerà sempre di più Maisie ad avvicinarsi alla nurse e a Sir Claude che, a loro volta, si separeranno dai rispettivi coniugi, per risposarsi tra di loro.

Nel film dei registi McGehee-Siegel lo scenario da vittoriano diventa newyorkese, dove divorzi e matrimoni seguono gli stessi ritmi, mentre i genitori di Maisie assumono le vesti di una stagionata rock star, Susanna (Julianne Moore), e di un mercante d’arte inglese, Beale (Steve Coogan), in difficoltà economiche e blackberry dipendente. I due, pur essendo abbastanza egoisti e gretti, esattamente come vengono descritti nel romanzo di James, mostrano solo apparentemente un lato reciprocamente vendicativo.

Al contrario delle loro controparti vittoriane, infatti, Susanna e Beale sono due lavoratori accaniti, che possono accampare valide scuse per la mancata cura di Maisie. La tecnica della macchina da presa, posta costantemente all’altezza dello sguardo della piccola protagonista, vede il mondo circostante con i suoi occhi di bambina, in cui gli adulti, posti al di sopra della sua testa, escono dal suo orizzonte percettivo, o vengono messi a fuoco interamente dal basso.

L’altra coppia, quella più giovane, dei due genitori acquisiti, Margo (Joanna Vanderham) e Lincoln (Alexander Skarsgård) è rappresentata da una bella ragazza, dolce e sensibile, dall’accento scozzese, e da un affascinante giovane di origine svedese, che lavora in un ristorante alla moda. Maisie (Onata Aprile), per tutto il film, non fa che passare dalle braccia di Margot a quelle di Lincoln, e viceversa, come una pallina da tennis. Memorabile è la scena il cui Susanna, in un estremo tentativo di “normalizzazione” familiare, per l’esclusivo affidamento della figlia, invita a casa propria una piccola compagna asiatica di Maisie, facendola assistere alle prove della sua band, e a una condotta incomprensibile (circondata com’è da musicisti, un po’ alticci, rumorosi e libertini), tale da provocare una crisi angosciosa di pianto nella piccola ospite. Tanto che Susanna è costretta a richiamare, nel cuore della notte, il padre della bambina, affinché venga a riprendersela. Il tutto, sotto lo sguardo perennemente silenzioso, ma teneramente dolorante della piccola Maisie, che sembra recepire, con infinita pazienza, quel suo destino così triste, dettato da una madre che non riesce, in fondo, nemmeno a badare a se stessa.

Sono così forti gli abbandoni improvvisi, le dimenticanze ora dell’uno, ora dell’altro genitore, che fanno mancare la loro presenza agli appuntamenti prefissati, lasciando da sola, per lunghe ore, Maisie, sia a scuola, che nell’androne del palazzo della casa paterna, in compagnia del solo peluche o dello zainetto, che rimane chiuso, in attesa che un adulto la inviti ad aprirlo, per fare con lei i compiti del giorno.

Colpisce la serenità e la padronanza dimostrata da Maisie, anche nelle situazioni a più alto contenuto privativo, in termini affettivi, accordati con un pianto silenzioso, una e una sola volta, in occasione dell’affidamento temporaneo ad altri estranei, in assenza o nell’impossibilità a intervenire delle due coppie genitoriali, naturale e acquisita. È sempre Maisie a trovare l’ancoraggio fondamentale per adulti in difficoltà, sia quando Lincoln va a prenderla, che quando la riaccompagna per la prima volta a scuola, guidandone le mosse con la sua manina, che si stringe a quella ben più forte dell’adulto, per trasmettergli la sicurezza che Lincoln dovrebbe avere e che non ha.

E, poi, la scena clou del film, con una madre disperata, che vede negli occhi dolcissimi della sua creatura un’ombra di paura, per quei suoi modi bruschi di intrattenerla e apostrofarla, consolata da un abbraccio risolutorio di Maisie, che la conforta e la tranquillizza, perché mai nessuno al mondo potrà prendere il posto, che è solo di lei, sua madre.

Una lezione di vita che ci viene dall’innocenza, ma che non termina in essa, invitando tutti noi ad accomodarci alla tavola dei semplici, per riflettere sul senso della vita.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:29