Chi Usa la televisione: intervista a Martera

sabato 6 settembre 2014


Così come già fatto con la musica, la radio, la religione, il cinema, lo sport, la letteratura, il teatro, il consumismo e la cucina, analizziamo oggi il rapporto tra Italia e Stati Uniti dal punto di vista di un altro paradigma fondamentale per il secolo scorso: la televisione.

Lo facciamo insieme ad un giovane talento italiano, Luca Martera: studioso, autore, regista, ideatore di diversi progetti multimediali tra Italia e Stati Uniti, l’ultimo dei quali in ordine di tempo è la direzione artistica di un comedy club a Milano basato sull’apprendimento dell’American-English attraverso l’umorismo, la satira e la comicità. Lo ringraziamo perché quello che ci dirà è estremamente interessante.

Luca, per prima cosa ti chiediamo di aiutarci a capire quale ruolo abbia avuto la televisione nella descrizione, nell’integrazione e nell’evoluzione degli italoamericani nella società americana.

Per qualsiasi tipo di analisi sulla rappresentazione degli italiani negli USA si deve partire cinema americano che per primo, sin dai tempi del muto, ha diffuso gli stereotipi sugli italiani basati sulle tre m: mamma, mafia e mandolino. In questo periodo due autentiche icone del XX secolo, come il primo divo di celluloide Rodolfo Valentino e il primo regista ad avere il “nome prima del titolo del film” Frank Capra, erano italiani ma non erano percepiti come tali dagli americani. L’associazione mafioso-italiano era ancora troppo forte. Bisogna arrivare alla fine degli anni ‘40 perché compaiano in radio o in tv i primi italoamericani in chiave positiva, ma comunque sempre stereotipata: magari non mafiosi, ma sempre emotivi, sciupafemmine, gesticolanti e pacchiani. I comici Jimmy Durante e Lou Costello (che faceva coppia con William Abbott con i nomi d’arte di Gianni e Pinotto) lo dimostrano, così come la prima sitcom del 1948 “Life with Luigi” e le ospitate come “freak” dei pugili Jake la Motta, Rocky Graziano e Primo Carnera.

Negli anni del boom della televisione (‘50 e ‘60) altri divi come Frank Sinatra, Perry Como, Dean Martin, Liberace, Tony Bennett, Frankie Valli inseguiranno e rafforzeranno questi steoreotipi.

Gli anni ‘70 sono quelli del poliziotto italoamericano integerrimo ma simpaticamente sbracato, dal Tenente Colombo a Baretta, quest’ultimo in parte ispirato alla figura di Frank Serpico. C’è anche un avvocato di provincia, Petrocelli, ma è il momento soprattutto di Arthur “Fonzie” Fonzarelli, protagonista di Happy Days. E sono da ricordare anche uno dei personaggi più odiosamente popolari della tv americana, quel Louie De Palma, interpretato da Danny De Vito nella sitcom “Taxi”, e Vinnie Barbarino (John Travolta) de “I Ragazzi del Sabato Sera”.

Gli anni ‘80 sono ancora all’insegna dello stereotipo duro-dal-cuore-d’oro o simpatici-e-confusionari come Carla Tortelli di “Cin Cin”, il capitano Frank Furillo (Daniel Travanti) di “Hill Street Giorno e Notte”, i musicisti di “Saranno famosi” Bruno e Dante. Nonostante ci fossero italoamericani importantissimi come lo psicologo Philip Zimbardo (quello del famoso esperimento sulle dinamiche di gruppo prigionieri-carcerieri) o l’attivista di diritti civili per i gay Vito Russo, nemmeno negli ‘80 gli Studios sembrano riuscire ancora a concepire un italiano alla guida di un’impresa, insegnare all’università, fare il medico o essere protagonista di altri generi come la fantascienza, l’horror, il western o una sitcom tradizionale come “La famiglia Keaton” e “I Robinson”. A dire il vero, nel 1987 fecero capolino sul piccolo schermo "I Tortellis" ma fu un flop.

Le prime avvisaglie di cambiamento risalgono agli anni ‘90 con il single stupidello Joey (Matt Le Blanc) in “Friends”, il tenente Nick Bonetti (Jack Scalia) che risolveva i casi con l’aiuto del mastino napoletano Tequila, il misantropo George Costanza (Jason Alexander) di “Seinfield”, l’avvocato pasticcione Jimmy Berluti (Michael Badalucco) in “The Practice”, per arrivare al successone della sitcom “Tutti amano Raymond” con il comico Ray Romano che interpreta un telecronista sportivo alle prese con la sua famiglia combinaguai.

La rivincita, un po’ agrodolce visti i contenuti, arriva negli anni 2000 con il Dallas degli italoamericani: “The Sopranos”, il capolavoro di David Chase per il canale via cavo HBO che ha segnato la golden age delle serie tv americane degli ultimi anni per la complessità dei temi e l’altissimo livello di recitazione dei protagonisti a cominciare dal boss mafioso Tony Soprano, interpretato dal compianto James Gandolfini. Chase, insieme a Tom Fontana (autore di “Oz” e “The Borgias”), ha aperto la strada agli showrunner di origine italiana come Liz Tuccillo, tra le sceneggiatrici di “Sex & the City”, che nel 2005 ha mostrato per la prima volta, nella serie “Related”, ragazze italoamericane di New York nevrotiche proprio come quelle wasp; e Greg Berlanti, la mente di “Brothers & Sisters” e di “Political Animals” dove figura il primo Presidente degli States di origine italiana.

Certo, non sono mancate negli ultimi anni le cadute di gusto con i reality trucidissimi “Jersey Shore”, “Mob Wives”, “Growing Up Gotti”, ma di fatto dagli anni 2000 gli americani di origine italiana sono ormai completamente integrati nello Studio System al punto da essere chiamati a interpretare qualsiasi ruolo e non più o solo quelli etnici, come dimostrano John Turturro, Paul Giamatti e Stanley Tucci.

Chi furono e chi sono oggi gli italoamericani più importanti nelle news, nei commercial, tra i producers, ai vertici dei network?

Fatta eccezione per la fiction, sino a pochi anni fa non ci sono stati significativi italoamericani negli altri generi televisivi. Un nome però è fondamentale per la storia dello showbiz a stelle e strisce: Jack Valenti. Per 38 anni è stato il presidente della MPAA, l’associazione dei produttori di Hollywood, uno dei posti di potere più ambiti in America dopo quello della Casa Bianca. Valenti non cambiò il suo cognome, a differenza di molti italoamericani che non volevano essere penalizzati rispetto ai wasp: tra questi Garry Marshall, il più famoso produttore, sceneggiatore e regista di origini italiane, che oggi ha quasi 80 anni. Il suo vero cognome è Masciarelli, ha scritto per divi televisivi come Dick Van Dyke e Lucille Ball, inventato serie popolarissime come “Happy Days”, “Laverne e Shirley” e “Mork e Mindy” e diretto film campioni d’incasso in tutto il mondo come “Pretty Woman” e “Paura d'amare”.

La storia dei cognomi è curiosa e sintomatica dei periodi storici. Anna Maria Italiano è il vero nome di Anne Bancroft, moglie di Mel Brooks e mitica signora Robinson protagonista assieme a Dustin Hoffman de “Il Laureato”. Ancora: di origini italiane sono Alan Alda (visto in “Mash” e tantissimi film di Woody Allen) e Robert Zemeckis, il regista di “Ritorno al futuro” e “Forrest Gump”; e uno anche dei comici più famosi degli States, Steve Carell, fa di cognome Caroselli.

A proposito di humor, come è mai possibile che una terra di comici naturali come la nostra non abbia lasciato una traccia negli Stati Uniti? La ragione può essere attribuita in parte all'analfabetismo degli emigrati italiani e di conseguenza alla loro lenta integrazione nella società americana. Anche perché, come diceva Totò, è la mancanza (di cibo, denaro, di donne) che crea la comicità: il nemico della comicità è il benessere. E proprio perché gli italoamericani erano poveri, è davvero un peccato non aver avuto italoamericani tra i giganti della satira a stelle e strisce come Lenny Bruce (ebreo), Richard Pryor (nero) o George Carlin (irlandese). Bisogna arrivare agli anni ‘90 per avere il primo stand up comedian di chiara origine italiana e realmente popolare: Jay Leno, in onda dal 1992 sulla NBC con “The Tonight Show”. Per le stesse ragioni sul ritardo “culturale” dei comici, c’è stato quello sull’informazione: nella lunga storia della tv americana non c’è stato alcun italoamericano anchorman o presentatore paragonabile per importanza a Walter Cronkite, Larry King o Oprah Winfrey. Stessa cosa per i conduttori-inventori di game show e i quiz.

Sappiamo che la televisione americana ha influenzato moltissimo quella italiana: ma c’è stato anche qualche elemento che ha viaggiato nella direzione opposta?

Direi di no. Non dimentichiamo che l’Italia usciva dalla seconda guerra mondiale come paese sconfitto. Con la nascita della tv il primo programma popolare della tv italiana, “Lascia o raddoppia?”, era la rielaborazione di un format americano. Anche se poi la Rai ha trovato una sua strada, arrivando a produrre varietà e sceneggiati eccellenti, non abbiamo mai esportato alcunché di rilevante. Scorrendo le annate di celebri programmi come l’Ed Sullivan o il Johnny Carson Show, di italiani si parla solo in caso di ospitate legate ai divi del cinema o della musica come Anna Magnani, Sophia Loren, Federico Fellini, Gina Lollobrigida, Domenico Modugno, Renato Carosone, Garinei & Giovannini, Topo Gigio, Rita Pavone fino al Roberto Benigni de “La vita è bella”. Ci sono però due eccezioni: “Il Gesù” di Zeffirelli e “La piovra” di Damiano Damiani furono due successoni e molti americani li ricordano ancora.

Tra i tuoi molti interessanti lavori multimediali, due sono tra i nostri preferiti: “Fiorello La Guardia, l’incorruttibile” e “I primi italiani emigrati negli Stati Uniti”. Hai in programma di occuparti ancora di temi che riguardano in qualche modo il connubio Italia/Stati Uniti?

Il mio cassetto è pieno di idee, ma purtroppo scarseggiano i committenti. La concorrenza del web, dove non paghi per vedere, e l’eccessiva offerta di canali tv hanno inferto un colpo mortale al documentario, che richiede un po’ più di attenzione per essere seguito.

Comunque, se potessi, mi piacerebbe realizzare “Italian Roots”, un viaggio nelle radici italiane della musica americana dalla lirica dei grandi teatri d’opera al jazz di New Orleans inventato da Nick La Rocca, dal musical di Vincent Minnelli allo swing di Louis Prima, da The Voice Frank Sinatra sino al pop-rock di Madonna, Frank Zappa, Bruce Springsteen e Lady Gaga. E ancora: come si fa a non ricordare il grandissimo contributo dei compositori per colonne sonore cinematografiche hollywoodiane? Henry Mancini (“La Pantera Rosa”), Bill Conti (“Rocky”), Harry Warren, vero nome Salvatore Antonio Guaragna (musiche e canzoni per Fred Astaire, Ginger Rogers, Gene Kelly, Judy Garland e la celeberrima “That’s Amore” per Dean Martin), Angelo Badalamenti (“Twin Peaks”) e poi ancora il rock di Steve Porcaro dei Toto, Steve Tyler degli Aerosmith, Jon Bon Jovi e persino l’insospettabile re delle parodie musicali Weird Al Yankovic, per metà italiano.

Abbiamo appreso da te che ci sono oggi negli Stati Uniti archivi di contenuti multimediali disponibili e pressoché inediti che sono un vero tesoro per chi abbia voglia (e budget) di fare ricerca in maniera approfondita su moltissimi aspetti dei rapporti tra Italia e Stati Uniti…

Durante il mio anno di permanenza a New York ho approfondito la conoscenza degli archivi storici americani che forniscono un inedito e interessante punto di vista per capire i fatti più controversi di casa nostra. Non avendo purtroppo finanziatori e gruppi editoriali alle spalle ho dovuto rinunciare a questo tipo di lavoro nonostante la grande quantità di storie.

Quella più importante, almeno per me, è la cosiddetta "guerra fredda culturale". La storia italiana dal secondo dopoguerra sino ad oggi è sempre stata influenzata dalle scelte politiche, economiche e sociali degli Stati Uniti. Sarebbe quindi interessante raccontare come il governo americano ha operato nel nostro paese dal Piano Marshall sino alla Caduta del Muro di Berlino attraverso il cosiddetto soft power, in altre parole attraverso il cinema, la musica, la televisione, l’editoria e la grande distribuzione. Questa storia ha anche un risvolto oltreoceano perché FBI e la CIA monitoravano attentamente qualsiasi artista italiano di simpatie sinistrorse durante i loro soggiorni americani e non si contano le informative segrete su personaggi come Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Ungaretti e persino Lucio Battisti.

Il caso di Mike Bongiorno: il personaggio che ha incarnato l’epopea televisiva italiana che ha accompagnato e guidato la crescita del nostro Paese, forse l’italoamericano più famoso in Italia, con una storia di emigrazione esemplare che riguarda lui e prima di lui la sua famiglia … che in America nessuno conosce. Come è possibile? Cosa si può fare per raccontare all’America o almeno agli italoamericani questa fantastica storia, per loro incredibilmente segreta?

Mike Bongiorno è stato il primo divo della televisione italiana ed era italoamericano. Incredibile è sicuramente l’aggettivo che descrive meglio la sua avventura umana, ricca di intensità e colpi di scena. Michael Nicholas Salvatore Bongiorno, detto Mike, prima di diventare il pioniere della televisione in Italia, ha vissuto mille avventure: dalla nascita a New York all’adolescenza a Torino, dalle durissime esperienze di prigioniero nei campi di concentramento nazista alla gioia del ritorno negli Stati Uniti. Caso o non caso, fu sicuramente l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto e destino volle che nel 1954 a questo giovane cronista della radio del Patto Atlantico “Voice of America” si spalancarono le porte della Rai perché nessun italiano se la sentiva di andare in video. Durante la mia permanenza a New York, ho approfondito - per conto della Fondazione Bongiorno presieduta dalla vedova Daniela Zuccoli e i tre figli Michele, Nicolò e Leonardo - il periodo americano di Bongiorno ricostruendo la sua vita in vista di un documentario. Purtroppo i maggior network italiani, almeno sino a questo momento, non hanno mostrato interesse verso questo progetto che potrebbe essere girato anche in una doppia versione inglese per favorirne la distribuzione negli Stati Uniti, così da far conoscere la figura di Mike nella terra che gli ha dato i natali. Vedremo in futuro.


di Umberto Mucci