“Viva l’Italia”, gli anni   di piombo all’India

“Viva l’Italia!”. Ma, l’Italia è... viva? Se parliamo di teatro, allora la risposta è “sì”! Il Teatro di Roma, attraverso la sua “succursale”, il Teatro India, presenta un interessante cartellone per la stagione 2014/2015, destinato ad incidere significativamente sul tentativo - in corso - di rivitalizzazione culturale di una piccola città, come quella che comprende i quartieri Marconi-Ostiense.

Tra l’altro, è in itinere la ristrutturazione, esterna e interna, del comprensorio dell’India, immerso in un parco industriale archeologico, di grandissimo interesse, con i suoi volumi lineari e gli ampi spazi interni. Ed è un’Italia giovane, piena di talenti artistici effervescenti, quella che mi è capitato di vedere nello spettacolo “Viva l’Italia”, in scena fino ad oggi (ma, mi auguro un suo proseguimento, o riedizione in tempi ravvicinati), che narra del doppio assassinio di due militanti del Centro sociale Leoncavallo, all’epoca degli Anni di Piombo e subito dopo la strage della scorta di Moro.

Ovviamente, la ricostruzione non aveva l’obbligo di fedeltà, rispetto ai fatti realmente accaduti (pur rispettandone la parte essenziale e sostanziale, anche con la messa in onda di registrazioni in voce dell’epoca, con interventi di parenti delle vittime e di animatori della radio in FM). Ma, la regia di César Brie, su testo di Roberto Scarpetti, si è dimostrata di un’efficacia straordinaria, per restituire a un uditorio, composto - per lo più - da giovani e giovanissimi, le atmosfere plumblee e lugubri del tempo, in cui morire era più facile che vivere. Una menzione particolare va all’articolazione scenica, poggiata su di un unico grande ambiente centrale, a livello delle sedie di prima fila. Lo scenario, quanto mai sobrio, è fatto di pochissimi mezzi: qualche telone di plastica, che cade dall’altro, o è steso in terra; alcune cassapanche senza coperchio, per simulare i contenitori stretti e angusti di volumi ben più impegnativi.

Ed è così, che quegli oggetti compressi, minimali, divengono di volta in volta, nell’immaginario scenico: case alle quali era stata strappata la vita e la speranza; cabine del telefono superaffollate di cronisti, inviati per il resoconto delle stragi e degli omicidi; appartamenti di rifugio dei latitanti dei Nar; uffici della questura di Milano, in cui un onesto commissario meridionale (che verrà, poi, avvicendato, con l’esemplare tecnica, in base alla quale l’Autorità costituita “promuove per rimuovere” i funzionari scomodi) tenterà di sollevare il velo sulla verità dell’omicidio premeditato dei due ragazzi. Un commissario assai credibile, vero e concreto, sovrastato, nei momenti cruciali della sua inchiesta, dal paradigma precostituito, di chi, dall’alto, intende svuotare di senso politico l’accaduto, per confinarlo nell’ambito di un semplice regolamento di conti tra spacciatori.

E questo perché, all’epoca, il Leoncavallo aveva istituito una sorta di “milizia interna”, per depurare il proprio quartiere dalla lebbra della droga, in modo da convincere i giovani tossicodipendenti ad abbandonare la sostanza, per dedicarsi all’attività politica radicale. Il tutto, ovviamente, illuminato dal dissenso dei militanti del centro sociale, nei confronti della terapia d’urto stragista delle Br, che seminava d’inutili vittime le strade d’Italia. E sono proprio quelle cassapanche il vero motore della narrazione. Loro, costituiscono l’orchestra che accompagna il dramma, ribaltandosi con la sonorità vibrante del corpo morto che cade, per l’urto violento contro il pavimento, o perché qualcuno, sul punto di morire, lo usa come passerella di lancio del proprio dolore.

Lo spazio è misurato per farvi entrare eretta una persona normale, ma, spesso, le presenze si raddoppiano, per dare maggiore pathos ed epicità alla narrazione del dramma, esaltando il connubio dei personaggi, inscatolati come pesci azzurri in quei gusci di legno, simili a quelli con i quali si tengono in vita i naufraghi. E, poi, i veli, costituiti da grandi mantelli di plastica, che si aprono e si richiudono in funzione del passaggio dei protagonisti (cinque magnifici esemplari di attor giovane), che giocano le ombre cinesi in trasparenza, dove i morti assassinati - con il loro sangue rappreso - le madri, i gruppi di fuoco, i poliziotti fanno vetrina, o vengono momentaneamente rivestiti, arrotolati, soffocati, di volta in volta, in funzione della narrazione.

Così, sotteso da quelle onde di plastica, muove il racconto intenso del complotto neofascista, con un commando senza scrupoli, mandato da Roma a Milano, per vendicare i fatti di Acca Larentia. Impressionante, nella sua mimica facciale, nel travestimento, nei modi e nei gesti, è l’interpretazione del killer, che vanta un’erezione da surplus di violenza, perché, come in una guerra non dichiarata, è bello uccidere ed essere uccisi. Soprattutto, dare esecuzione all’ordine dei capi, inseguendo dei bersagli facili, come Fausto e Iaio, perfettamente ignari del loro destino, che vanno incontro - a richiesta di uno dei killer - al gruppo di fuoco, addirittura sorridendo.

L’analisi dei membri dei Nar, di quel tempo, è puntuale, per quanto è dato di ricordare dalle cronache giudiziarie dell’epoca: si tratta di giovani esaltati, malati di machismo, per cui il corpo di una donna è un materassino da palestra, su cui esercitarsi. E la pistola diviene un prolungamento evidente del pene, che s’impugna come il manico di un trapano, affogandola in una busta di plastica, affinché i bossoli dell’esecuzione non cadano a terra; finendo senza emozioni il nemico già colpito, agonizzante sul selciato di una strada sconosciuta.

“Viva l’Italia” è il dramma rappresentato benissimo delle donne: mogli di giornalisti, di poliziotti in prima linea e, soprattutto, madri, che si consumano per mancanza di rassegnazione della sorte toccata al figlio maschio, giovane e idealista. Qui, una menzione particolare merita l’unica interprete femminile del gruppo, che in ogni momento, svolgendo attività sceniche multiruolo, ha saputo dare con la sua voce, accompagnata da gesti semplicissimi, da un incedere intriso di sofferenza composta, tutta l’energia che serviva a chi, all’epoca dei fatti, non era ancora nato/a, per tirare su, come una rete a strascico della storia contemporanea, i resti e le testimonianze di vita di quelle povere e sfortunate vittime.

Centrale sarà, poi, il rapporto istituzionale tra stampa e “regime”; tra appartenenti alle forze dell’ordine, dove gioca volutamente il fortissimo contrasto tra l’ideale di giustizia del servitore dello Stato (il commissario) e il suo dirigente, molto più attento alle esigenze della politica, per cui anche la verità va piegata e addomesticata, in modo da non disturbare il manovratore istituzionale. Poi, gli spari, le questioni poste che rimangono senza risposta, e senza più tutela, perché la stampa e gli inquirenti responsabili scompaiono misteriosamente, inghiottiti da una macchina stragista senza volto, responsabilmente irresponsabile.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:30