Un Nobel postumo per il carismatico Arcieri

mercoledì 4 febbraio 2015


Il 23 febbraio 1978 il “Corsera” augurò, testuali parole, “l’eutanasia per il bene suo e di tutti noi” a Maurizio Arcieri, leader dei Krisma, dopo che il cantante si era tranciato con un rasoio l’indice della mano sinistra in una balera di Reggiolo, troncando la contestazione del pubblico zittito dagli schizzi di sangue. L’augurio “tranchant” non era in realtà dovuto alla follia del gesto quanto a qualcosa di ancora peggio per il giornalismo dell’epoca. Se era indigesta la conversione dell’ugola orecchiabile di “Cinque minuti” all’underground post rock, più inaccettabile era la sua nuova filosofia de “l’italianità del punk”. Ora che Arcieri se n’è andato a 73 anni, è partito un coro di elogi, meritato ma quasi fastidioso per l’evidente ipocrita insincerità.

L’occasione è buona per dare ragione alle idee del leader dei New Dada e dei Krisma. E per porsi qualche domanda sui destini tanto diversi vissuti tutt’oggi nello show business, per esempio dagli eterni Gianni Morandi e Raffaella Carrà e dall’isolato “Krismatico”. Ancora di più per chiedersi chi veramente, nell’area milanese varesotta, meritava il Nobel se Dario Fo, con la moglie Franca Rame, o piuttosto un Arcieri, con la moglie svizzera Christina Moser. I due, divisi da 15 anni di differenza risoltisi a vantaggio del più vecchio, non hanno carriere troppo diverse. I primi 10 anni del biondo Dario sono in Rai tra varietà e “Canzonissima”. Il decennio iniziale del biondissimo Maurizio è diviso tra gruppi beat, fotoromanzi e film leggeri incentrati sulla popolarità dei cantanti. Tra i due non c’è partita. Il cantante è nel ‘68 all’apice del consenso, il più bello in assoluto sulla scena, l’unico all’altezza delle popstar importate e dei David Bowie del momento. Gli impegnati potevano storcere la bocca sia davanti alle canzoni d’amore (le stesse, in italiano, dei Rolling Stones) che agli sketch “simil-Vianello”. Poi Dario e Maurizio sterzano. Il primo si butta in politica, satira impegnata di sinistra ed incomprensibile gramelot. Il secondo da Londra e New York diventa un antesignano del pop punk elettronico, destinato a dominare la scena nei decenni a seguire.

È l’epoca della musica ritmata afro giamaicana e dell’elettronica, più o meno dance. È il periodo in cui gli italiani per spopolare nelle disco si fanno passare da americani. Maurizio e la bella Moser, da sinceri naives non nascondono l’identità padan-alpina. Non si fanno passare da Depeche Mode latini. Ritessono il filo del mito tecnologico, onirico, tragico e vitalista della musica bianca tra l’evocazioni di “Ziggy Stardust” e la spietatezza dark e new age. Non sbracano, come gran parte degli altri gruppi della new wave italiana, sullo ziganismo terzomondista, su un piagnucoloso neopascolismo, o su un nostrano country. Non a caso sembrano i cattivi del “Novecento” di Bernardo Bertolucci o “futuristi 3.0”. Non inseguono vittimismi politico-sessuali, anzi elevano il sex pop a categoria artistica.

Ovviamente l’“establishment” culturale ha esaltato tutte le sfumature di errori e cantonate del Dario. E rifuggito neghittoso i pericolosi messaggi, neanche troppo subliminali, dei Krisma che trattano ostentatamente di tv e dei pappagalli trasformisti che abbaiano. La loro musica bianca, abbronzata a neve, esibizionista di forme e sesso, è italiana ed è punk, forma moderna di futurismo. Idolatrata in Giappone, qui finiva nei tuguri televisivi delle ultime trasmissioni kitsch. D’altronde Arcieri, da amico del popolo, non si vergognava di parlare dovunque e a tutti. Non aveva la furbizia e l’arte di chi, per testimoniare dell’eguaglianza tra gli uomini, ha bisogno di un palco ed una cattedra posti molto in alto. Ad Arcieri, vero interprete dell’innovazione e anticipatore del tempo di internet va un Nobel vero alla memoria, che risulterà meno fragile nel tempo di quelli burocratici.


di Giuseppe Mele