L’impresa di Olivetti, intervista a de’ Liguori

Beniamino de’ Liguori, classe ‘81, una laurea in storia contemporanea e il nome di una santo napoletano (proclamato da papa Gregorio XVI nel 1839), ha ripreso in mano l’eredità culturale della famiglia Olivetti, assumendo la direzione della casa editrice fondata da Adriano nel 1948. In occasione della pubblicazione de “L’ordine politico delle Comunità”, il libro in cui Olivetti teorizzava i fondamenti del suo pensiero politico e sociale, abbiamo avuto modo di chiacchierare con Beniamino de’ Liguori, confrontando le istanze del pensiero olivettiano con l’attualità economica e sociale.

Negli anni Cinquanta la Olivetti raggiungeva il primato mondiale nel settore delle macchine per scrivere e della nascente informatica. Il valore fondante di quell’esperienza imprenditoriale era rappresentato dal fatto che alla Olivetti la produzione materiale non era fine a se stessa, ma avveniva parallelamente all’evoluzione morale e intellettuale dei suoi dipendenti. Per citare Massimo Fichera, uno dei collaboratori di Adriano Olivetti a quel tempo, la fabbrica doveva farsi produttrice di bene e non solo di beni. Perché, dopo oltre cinquant’anni, la vita di Adriano Olivetti e del suo capitalismo dal volto umano continua ad esercitare un fascino così forte nell’immaginario comune?

È un fascino che trascende i tempi della storia perché ha a che fare con le domande profonde ed eterne dell’essere umano, cioè il senso di giustizia e dell’incontro con l’altro, il ruolo dell’etica e della morale. Sono cose che vanno da Platone e arrivano fino ad Olivetti, passando per Hegel. Forse il nostro tempo, più rapidamente o più profondamente degli altri, sembra avere smarrito, e in alcuni casi rimosso, il senso di questa domanda. Il confronto con un’esperienza come quella di Olivetti, che sembra racchiudere al suo interno non solo quelle istanze, ma anche una traccia di risposta, è ovviamente deflagrante all’interno di uno spirito così atrofizzato come quello moderno. Confrontarsi con un’esperienza che ha provato a dare delle risposte all’interno del sistema, non solo da un punto di vista teoretico e astratto, ma anche pratico, assume una valenza emotiva, oltre che intellettuale e culturale, che colpisce.

A causa dell’alto fattore tecnologico della produzione, uno dei fattori decisivi affinché un’impresa possa competere oggi sui mercati internazionali è l’innovazione. La Olivetti raggiunse il suo primato industriale grazie a idee originali che si tramutavano in prodotti all’avanguardia. Questa continua sperimentazione e innovazione era ottenuta grazie al decisivo apporto di intellettuali di vario grado impiegati ai vertici dell’azienda, tra cui si ricordano, solo per citare alcuni, Franco Ferrarotti, Paolo Volponi, Geno Pampaloni e molti altri. Che ruolo aveva la cultura nell’esperienza industriale della Olivetti?

Era fondamentale. L’aspetto culturale era un momento essenziale al disegno e ai progetti dei laboratori olivettiani. E non si esauriva solo nell’azione e nei servizi culturali dell’azienda – qui bisogna essere molto chiari e fare una distinzione tra quello che Olivetti faceva all’interno dell’azienda e l’attività del Movimento di Comunità, con i suoi centri, la casa editrice e via dicendo. Il momento della cultura era il più alto perché, come egli scrisse ne “Il cammino della Comunità”, la virtù rivoluzionaria che scaturisce dalla conoscenza e dalla cultura riesce a donare all’uomo il suo vero potere. Oggi, in realtà, è stata fatta una lettura sbagliata, in chiave utilitaristica, del progetto olivettiano. Si pensa che un operaio sia più contento quando abbia un cinema o un teatro in cui passare il tempo libero, quasi come avveniva per i Romani a cui venivano dati panem et circenses. Per Olivetti il punto era diverso: oltre che affettivo, l’uomo è un essere culturale che ha bisogno della cultura per crescere ed evolversi. Un lavoratore più contento non è un lavoratore che produce di più, ma una persona pienamente realizzata in cui il suo talento viene messo a frutto, così da costruire una comunità concreta di persone in armonia tra di loro.

Oggi il capitalismo è diventato massicciamente influenzato dalla finanza e dai suoi apparati, come il mercato dei derivati che ha portato allo scoppio della crisi del 2008. Secondo te cosa penserebbe Adriano Olivetti di questa mutazione genetica del capitalismo?

Non lo so. È certo però che, da un’analisi attenta dei suoi scritti e leggendo la sua biografia, emergerebbe un qualche tipo di smarrimento. Adriano Olivetti era legato al prodotto e alla concretezza dell’impresa, che aveva poi il suo riflesso nei rapporti interpersonali con il territorio – di lì nasce l’idea di Comunità. Come disse nel discorso tenuto all’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli, il prodotto correva in giro per il mondo e poi tornava indietro sotto forma di pane e salari, un qualcosa che ormai è tramontato. È evidente che stiamo parlando di due mondi opposti, quello di Adriano Olivetti e quello che viviamo oggi.

La Olivetti nacque come una piccola azienda manifatturiera alla fine degli anni Venti per volontà di Camillo Olivetti, un giovane che viaggiò negli Stati Uniti al seguito dello scienziato Galileo Ferraris e che tornò in Italia con le idee chiare: fondare la prima azienda italiana di macchine per scrivere. Negli anni successivi la Olivetti acquisì una dimensione più ampia, capace di competere sui mercati internazionali. Ci sono oggi le condizioni affinché le nostre piccole e medie imprese possano ripercorrere il cammino della Olivetti?

I dati economici sono molto cambiati rispetto ad allora ed il mercato dei prodotti di consumo è abbastanza saturo. Anche se non è possibile fare una comparazione diretta, tuttavia si può recuperare lo spirito di quell’iniziativa. Lo spirito di Camillo Olivetti, che poi non è diverso da quello che più tardi ha contraddistinto l’opera di Adriano. Direi che l’elemento che rimane fondamentale ancora oggi per il successo di un’impresa sia l’osservazione diretta del mercato, la conoscenza approfondita del mondo circostante – come hai detto tu, la decisione di fondare la sua azienda deriva da un viaggio negli Stati Uniti dove Camillo Olivetti intuì quelle che potevano essere le tendenze del mercato. Riguardo il ruolo sociale dell’impresa Olivetti, i cui primi esperimenti e istituti assistenziali di avanguardia nacquero con Camillo, credo che in un mercato come quello globale, diventato ultra-competitivo, in cui è sempre più difficile ottenere posizioni dominanti, quella esperienza non possa essere facilmente riprodotta. La storia della Olivetti ha avuto il suo corso, la sua parabola di ascesa e discesa, e si è conclusa. Quello che possiamo però ritrovare oggi è la sua istanza innovatrice. Certo, anche dal punto di vista delle dimensioni, resta il rammarico che quell’esperienza sia andata dispersa e che essa rappresenti un unicum quasi irreplicabile.

In una società come quella occidentale in cui le vecchie ideologie sono ormai tramontate, può la via di Adriano Olivetti rappresentare un modello italiano di sviluppo?

Oggi non lo so. Nel momento in cui era maturata – parliamo degli anni Cinquanta – era sicuramente una via europea, e anche mediterranea allo sviluppo, perché sapeva coniugare l’efficienza del capitalismo americano con alcune istanze che venivano dal mondo socialista – non a caso uno dei sottotitoli del libro “L’ordine politico delle Comunità (adesso ripubblicato dalle Edizioni di Comunità, n.d.r.) era al di là del socialismo e del capitalismo. Quella di Adriano Olivetti era sicuramente un terza via che ancora oggi può rappresentare una prospettiva di sviluppo legata alla tradizione culturale europea e anche a quella cristiana, pur non significando ciò che la via di Olivetti sia dogmatica. Tutt’altro.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:28