Centro del sapere Usa, l’intervista a Messa

Il “Centro Studi Americani” è il luogo per eccellenza in cui, qui in Italia, vengono celebrate le relazioni tra il nostro Paese e gli Stati Uniti. Ha sede nel cuore della Capitale, presso il piano nobile del Palazzo Antici Mattei, uno degli esempi più prestigiosi della Roma seicentesca, costruito da Carlo Maderno tra il 1598 e il 1618. Oggi il Centro Studi Americani si è dato una nuova governance. A dirigerlo c’è Paolo Messa (nella foto), un giovane e dinamico professionista che riassume in sé innovazione e competenza, nonché amore e rispetto per l’Italia e per gli Stati Uniti.

Paolo, qual è la storia del Centro Studi Americani?

Si tratta di una delle più importanti biblioteche americane fuori dai confini degli Stati Uniti. Ha una storia gloriosa che si avvicina agli ottant’anni e nasce dalla donazione di un intellettuale di Harvard, Henry Nelson Gay, che decise di lasciare in Italia la sua vastissima biblioteca. Ancora oggi questa attività è un pilastro del Centro Studi Americani e ogni giorno c’è un approvvigionamento di libri, di riviste e di quotidiani. In Italia non esiste alcun altro luogo che può vantare questa quantità di contenuti in aggiornamento così continuo e costante: più di 50mila monografie e circa 20mila materiali audiovisivi, riviste e altro. In tutto possiamo parlare di circa 70mila volumi. Quindi, è un patrimonio importantissimo che è disponibile per gli studenti delle università italiane e straniere, peraltro oggi fruibile anche non fisicamente attraverso Internet. Nel tempo il Centro Studi Americani ha dato un contributo, per esempio, alla diffusione della conoscenza della lingua inglese nel nostro Paese, in particolare a Roma. Poi questa necessità è venuta meno, per fortuna, perché nel frattempo scuole, università e istituzioni private hanno colmato questo vuoto, e così nel corso degli ultimi due decenni il Centro Studi Americani si è trasformato anche in quello che può essere definito un think tank. Non esiste una vera e propria attività di ricerca svolta nell’ambito del nostro istituto, ma il Centro Studi Americani rappresenta un hub, forse uno dei più importanti in Italia, per le relazioni transatlantiche. Sviluppiamo discussioni riguardo a temi di cultura storica, di attualità, e naturalmente anche di geopolitica ed economia, ospitando spesso personalità dell’amministrazione americana come anche rappresentanti del governo italiano. Sottolineo inoltre che il Centro Studi Americani non riceve sussidi pubblici, ma si basa sulle donazioni di cittadini e imprese italiane e americane e che in ogni caso rappresenta un’istituzione così importante da risultare vigilata dal ministero degli Affari Esteri Italiano e dal Dipartimento di Stato attraverso l’Ambasciata Americana in Italia.

Questi 70mila volumi parlano solo di Stati Uniti o ce ne sono di tanti tipi diversi?

Vi sono volumi di letteratura, tantissimi di analisi storica e politica degli Stati Uniti e dei suoi rapporti con l’Europa, con l’Italia, con le grandi aree geografiche. Esiste una parte di libreria che è dedicata al rapporto con la religione. Il mio auspicio è che questo patrimonio venga ulteriormente valorizzato, magari abbinando il nome di qualche mecenate americano o italiano alle singole sezioni della biblioteca.

Che tipo di attività organizzate nel corso dell’anno?

La maggior parte delle attività che svolgiamo sono a porte aperte, rivolte a favorire il miglioramento delle relazioni transatlantiche con il coinvolgimento di stakeholders italiani importanti, ma anche di studenti e della pubblica opinione, insieme anche ai media. Naturalmente, i temi trattati vanno dagli studi americani più propriamente detti ai principali dossier geopolitici. Nel corso degli ultimi anni è maturata anche un’attenzione maggiore a temi come il climate change oppure l’impatto delle tecnologie nella vita dei cittadini, e anche ovviamente il dibattito sulla crisi economica e finanziaria e le possibili soluzioni - avendo noi, chiaramente, l’interesse a sottolineare anche in questo caso l’efficacia della via americana. Un’altra parte di attività che svolgiamo, meno importante in termini numerici, ma comunque rilevante sul piano del posizionamento del Centro Studi Americani, è data dalle colazioni di lavoro, dagli incontri più riservati, dove coinvolgiamo esponenti del governo italiano o dell’amministrazione americana che sono in visita nel nostro Paese e che vogliono avere un luogo riservato nel quale affrontare temi che sono rilevanti nell’agenda istituzionale. Si tratta di incontri particolarmente efficaci, perché la leadership italiana non è sempre consapevole del tipo di dibattito che si sviluppa Oltreoceano e che può poi vedere nel nostro Paese grandi opportunità di sviluppo.

Che tipo di visione c’è per il futuro del Centro Studi Americani?

In un contesto storico-politico diverso, l’investimento in un centro studi potrebbe non risultare fondamentale. Invece, se si guarda alle persone che hanno scelto di essere impegnate nel Centro Studi Americani si scopre che, probabilmente, mai come oggi c’è un livello di partecipazione così alta, autorevole e qualificata. Il nostro presidente è Gianni De Gennaro, e insieme a lui ci sono Marta Dassù e Peter Alegi in qualità di vice presidenti. Inoltre, ed è una novità per me importantissima perché indica una direttrice di azione che consideriamo fondamentale, ovvero il rapporto con le università, insieme ad altre personalità abbiamo nel nuovo board anche i Rettori dell’Università “La Sapienza”, della “Luiss” e della “John Cabot University”, rispettivamente i professori Eugenio Gaudio, Massimo Egidi e Franco Pavoncello. Infine, una cosa di cui siamo molto orgogliosi è la presenza a bordo dell’Ambasciatore Ronald Spogli. La figura di Spogli non è soltanto rilevante per il valore politico e affettivo che il diplomatico rappresenta per i rapporti tra Stati Uniti e Italia; siamo molto contenti della sua adesione al nostro invito anche perché Spogli è impegnato nella Stanford University, a San Francisco, dove ha fondato il “Freeman Spogli Institute for International Studies”. Quindi ci fa piacere avere attraverso lui un ponte verso un’importantissima università americana, e anche verso un lato dell’America che è quello più distante da noi e che però oggi rappresenta uno dei punti di maggiore attrazione a livello globale. Quindi grazie a Spogli riusciamo ad andare anche al di là di Washington, con cui tutti quanti, chi più chi meno, abbiamo da tempo una frequentazione più costante. L’obiettivo per i prossimi anni è da un lato qualificare il Centro con uno o due appuntamenti annuali di altissimo livello: e questa è la parte “più facile”. Ma io credo che la vera sfida sarà nella continuità. Io mi auguro che in un tempo rapido il Centro Studi Americani arrivi ad ospitare ogni giorno un’iniziativa. Ora siamo vicini a questo obiettivo, però lo sforzo è trasformare questo luogo in un luogo vivo, frequentato da giovani, anziani, figli, genitori: non tutti contemporaneamente ogni giorno, ma ognuno in base alle occasioni che sapremo offrire loro per incontrarsi e discutere. Il tutto, ovviamente, in una logica di amicizia con gli Stati Uniti: un’amicizia che non corrisponde ad un approccio ideologico totalitario, ma che fa anche della libertà d’espressione e della critica un suo naturale componente. Un’anticipazione che mi sento di poter dare in anteprima è che, innovando rispetto a quanto fatto in passato, mi piacerebbe diventasse un filone di analisi o d’iniziativa il rapporto con la Santa Sede. Quest’anno Papa Francesco sarà a New York alle Nazioni Unite: si tratta della sua prima volta in Nord America, però noi riteniamo che non si debba guardare soltanto a questo aspetto, quello più superficiale ed evidente, ma in generale al ruolo geopolitico che la diplomazia Vaticana è tornata a svolgere. Penso a quello che è successo in Siria, penso a quello che è successo a Cuba, penso a quello che succede in altri luoghi del mondo importanti di cui non abbiamo una conoscenza così completa. Io credo che, così come sia importante il rapporto Stati Uniti-Italia/Unione europea possa essere importante e cruciale per il futuro anche il rapporto Stati Uniti-Italia/Vaticano. Questo è un approccio abbastanza nuovo nelle relazioni transatlantiche, che vede l’inserimento di un terzo soggetto: ripeto, è una sfida d’analisi geopolitica. Ci piacerebbe provare a capire se ha un senso oppure no. Fra qualche mese ne riparleremo.

Il Centro Studi Americani è tra i principali punti di riferimento non istituzionali che si occupano delle relazioni tra Italia e Usa. Come giudichi lo stato dei rapporti tra i due Paesi e cosa può essere fatto per migliorarli ulteriormente?

Noi riteniamo che oggi nel nostro Paese, per quanto sia sempre fortissima la capacità di soft power degli Stati Uniti, ci sia invece un deficit di attenzione e conoscenza dell’hard power americano. Nel dibattito pubblico sempre più spesso sentiamo parlare anche persone autorevoli che nell’esprimere una critica alla situazione internazionale la riconducono ad errori tattici o strategici degli Stati Uniti. Peraltro in una grande condizione di disordine globale, la tentazione di avere un approccio strabico rispetto al posizionamento internazionale dell’Italia è un rischio che valutiamo forte e pertanto grave: quindi, con il Centro Studi Americani coltiviamo l’ambizione di poter offrire punti di vista e contenuti utili invece a rafforzare quel legame atlantico che è nella costituzione non scritta, ma ugualmente rilevantissima del nostro Paese.

Uno dei principali temi che vedono protagonisti l’Italia (insieme all’Europa) e gli Stati Uniti oggi sono i negoziati per il Transatlantic Trade and Investment Partnership. Qual è il tuo pensiero a questo proposito?

Io penso che il TTIP rappresenti una risposta politica efficacissima all’idea di un futuro euroasiatico che tanto successo suscita qui in Italia. L’accordo di libero scambio transatlantico è invece l’idea che si possa rafforzare il legame fra i nostri Paesi, anche dal punto di vista del commercio. Ovviamente è un passaggio stretto in un contesto non facilissimo. Gli argomenti che sono contenuti nel trattato sono numerosi, e siamo ancora in una fase di negoziazione. Devo dire che ho letto e ascoltato molte critiche, la maggior parte delle quali del tutto infondate. Credo che sarà utile nei prossimi mesi favorire una buona informazione sul trattato e per una volta credo che non ci sia soltanto una difficoltà italiana, ma anche una difficoltà degli Stati Uniti. Facciamo i conti, noi e loro, con le contraddizioni del sistema democratico... cui però, diciamo, non abbiamo ancora trovato una buona alternativa. Peraltro la difficoltà americana trova in Europa una moltiplicazione per ventotto, quanti sono gli Stati membri dell’Ue. Detto questo, io confido che l’interesse politico e, di conseguenza, l’interesse economico possano rappresentare il boost per arrivare, speriamo nel 2016, alla firma di questo trattato che può avere davvero un effetto stravolgente, in senso positivo, per tutti noi: l’Italia è il paese europeo candidato a trarre i maggiori benefici. Ultima nota, e mi fa piacere dirlo in un contesto in cui spesso ci troviamo invece in una condizione di esprimere critiche al nostro Paese: devo dire che grazie all’impegno che ci sta mettendo il vice ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda su questo dossier, il nostro Paese ha un ruolo da protagonista assolutamente positivo. Purtroppo non accade spesso, però in questo caso accade e credo che sia giusto riconoscerlo e rivendicarlo. Ho avuto modo anche recentemente di incontrare e parlare con l’ambasciatore Michael Froman, che è il rappresentante per il commercio internazionale dell’amministrazione americana, e credo che sia chiaro anche a loro quale ruolo positivo sta svolgendo l’Italia in seno all’Europa e più in generale nel negoziato per contribuire al risultato finale.

In quest’ambito, “We the Italians” è convinta che un ruolo fondamentale dovrebbe essere quello della comunità italoamericana, i cui meriti sono purtroppo decisamente poco conosciuti in Italia: questo lungo ciclo di interviste serve anche a riavvicinarla al nostro Paese descrivendone i tantissimi lati e personaggi positivi. Qual è il tuo pensiero in merito?

Considero tristemente giusta questa analisi. La comunità d’italiani radicati negli Stati Uniti, così come la comunità di numero inferiore di americani che nel tempo si sono insediati in Italia, rappresentano tutti insieme un valore, un tesoro che tende a restare nascosto. Da questo punto di vista l’attività di “We the Italians” è assolutamente preziosa, utile e ritengo vada incoraggiata e per quanto sarà possibile il Centro Studi Americani vorrebbe provare a dare il suo contributo a questa missione. Mi auguro che possano crescere e maturare ragioni di ulteriore collaborazione al di là dell’amicizia e della stima che già tratteggiano il rapporto tra queste due iniziative.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:36