Archeologia subacquea   disciplina scientifica

Gli inizi. Sono già trascorsi trentotto anni dalla morte di Nino Lamboglia, insigne studioso e archeologo che ha legato il suo nome a studi importantissimi nel campo della topografia antica e dello studio della ceramica romana. Pochi, tra i non addetti ai lavori, sanno, però, che egli è stato anche uno dei padri fondatori dell’archeologia subacquea. Nel 1950, dirigendo i lavori di scavo sul relitto della nave romana di Albenga, Lamboglia intuisce le potenzialità offerte da questo nuovo ambito di esplorazioni e si convince della necessità di trasferire sott’acqua, con i dovuti adattamenti, le stesse tecniche di lavoro e di documentazione impiegate sulla terraferma e, soprattutto, il metodo di scavo stratigrafico.

Pochi anni prima, Jacques-Yves Cousteau ed Emile Gagnan avevano inventato l’autorespiratore ad aria, quello che oggi chiamiamo erogatore, uno strumento che permette all’uomo di respirare liberamente sott’acqua da una bombola di aria compressa, affrancandolo dai pesanti scafandri da palombaro e dalle relative manichette per il rifornimento dell’aria e schiudendo orizzonti illimitati all’immersione sportiva o scientifica. Tra i meriti universalmente riconosciuti a Nino Lamboglia va senz’altro ricordata la creazione, nel 1957, del Centro Sperimentale di Archeologia sottomarina ad Albenga, presso l’Istituto Internazionale di Studi Liguri, da lui stesso fondato. Allora l’Italia ebbe, per prima al mondo, una nave adattata alle ricerche archeologiche sottomarine, la Daino, un ex dragamine, con la quale furono realizzati interventi lungo tutta la penisola.

Al tempo delle prime ricerche, però, gli archeologi si limitavano a dirigere da una barca appoggio le operazioni condotte sul fondo da esperti subacquei. Lamboglia non sentì mai la necessità di scendere personalmente sott’acqua e si servì di subacquei professionisti, di subacquei sportivi volontari e di quelli delle forze dell’ordine. Ben presto, tuttavia, si comprese che soltanto con la presenza in situ dell’archeologo, come operatore subacqueo e direttore scientifico dei lavori, si poteva garantire la corretta esecuzione dello scavo e, soprattutto, la giusta interpretazione dei dati. Furono gli americani a bruciare le tappe in questa direzione quando, nel 1960, a Capo Chelidonia, in Turchia, l’archeologo George F. Bass scese sott’acqua per dirigere le ricerche su un relitto dell’Età del Bronzo, alla guida di un gruppo di ricercatori dell’Università di Pennsylvania.

L’archeologia subacquea oggi: come si diventa archeosub

Sono passati, ormai, quasi sessanta anni da quegli eventi e nel mondo, non solo in Italia, l’Archeologia subacquea ha compiuto notevoli progressi, sia per le tecnologie applicate alla ricerca, sia per i risultati conseguiti. Nessuno concepisce più il mondo sottomarino come spazio aperto a razzie e a recuperi indiscriminati di tesori e opere d’arte e molti studenti, in ogni parte del mondo, seguono corsi specifici per prepararsi a questa moderna e stimolante attività di ricerca.

Ai giovani che vogliono dedicarsi a questa disciplina archeologica, caratterizzata da dinamismo evolutivo, da una forte componente tecnica e tecnologica e da peculiari conoscenze scientifiche è richiesta, dunque, una doppia specializzazione: essi devono formarsi sia come archeologi, sia come esperti subacquei. Per potersi dire validi archeologi subacquei bisognerà, infatti, essere in grado di muoversi e svolgere disinvoltamente le attività specifiche della ricerca archeologica in qualsiasi contesto sommerso, capacità che non sono richieste ai subacquei sportivi. Spesso i siti sono localizzati in acque torbide, inquinate (porti, acque stagnanti) o caratterizzate da forti correnti (fiumi, mare aperto), situazioni che non si vanno normalmente a cercare per un fine settimana ricreativo!

Motivi tecnici impongono la necessità di contenere i tempi di immersione ed il numero degli operatori, considerati gli alti costi logistici degli interventi in acque aperte, e questa esigenza obbliga spesso gli archeologi subacquei ad essere dei tuttofare e ad essere intercambiabili nelle turnazioni. Ciascuno deve sapere far fronte alle varie necessità del lavoro, dalla documentazione grafica e fotografica, allo scavo, alla realizzazione di idonei sistemi di recupero dei reperti più delicati, alla riparazione e al montaggio di apparati meccanici (sorbone, compressori ecc.), alla conduzione di imbarcazioni. Si deve, poi, avere una qualche dimestichezza con la meteorologia, con l’orientamento sopra e sotto l’acqua e saper usare gli strumenti più comuni (bussole, goniometri, squadrette), per determinare e trasferire sulle carte la propria posizione, e conoscere almeno il funzionamento degli strumenti più complessi (sonar, rivelatori di metalli, gps, Laser Scanner 3D, ecc.). Queste capacità si acquisiscono solo attraverso un paziente, lungo tirocinio di formazione che passa attraverso fasi successive, tra le quali si colloca il conseguimento del primo brevetto di immersione. Tale attività formativa può essere parallela o precedente a quella archeologica, ma è ovvio che non può prescindere da quest’ultima. Anche se la Storia deve essere considerata, in linea di principio, come un percorso unitario dell’esperienza umana, ogni studente si applicherà, inevitabilmente, ai campi di ricerca a lui più congeniali; saranno, quindi, presi in considerazione ambiti geografici o contesti culturali (Grecia, Roma, Asia, Oriente...), ovvero ambiti cronologici (preistoria, età classica, paleocristiana, Medioevo...).

Ci si specializzerà, poi, se ritenuto opportuno, negli aspetti più diversi pertinenti a ciascun contesto (epigrafia, numismatica, arti figurative, architettura, topografia, tecnologia e produzioni varie, ceramica…). L’Archeologia subacquea, abbiamo detto, definisce il complesso delle attività di ricerca archeologica rivolte al mondo sommerso. Si parlerà, dunque, di Archeologia navale, Archeologia degli insediamenti costieri, di Archeologia lagunare, di Archeologia degli alti fondali ecc., come attività di ricerca che privilegiano particolari tipologie di reperti (i relitti di antiche imbarcazioni, porti) o peculiari contesti in cui si svolge l’indagine (spazi umidi ristretti, lagune, fondali marini).

Infatti, quale che sia il contesto culturale, l’epoca storica o la categoria di manufatti oggetto del nostro studio, è certo che noi possiamo riscontrarne le tracce indagando sotto le acque di lagune, laghi, fiumi, mari. Spesso i ritrovamenti che si verificano nel corso delle ricerche subacquee ci pongono davanti a testimonianze che costituiscono in sé l’espressione più alta delle capacità tecnologiche degli antichi, come le navi o i moli in opera cementizia costruiti dai romani, oppure ci consentono di apprendere che già allora erano usati strumenti enigmatici e complessi, come il noto Meccanismo di Antikythera, costituito da una serie di ingranaggi che, in qualche modo, davano il movimento ad un planetario meccanico riproducente il moto dei maggiori pianeti.

Le civiltà piccole e grandi, intese come esigue comunità di individui o come imperi che hanno improntato di sé la storia del mondo, sono nate e si sono sviluppate là dove era ed è presente l’acqua. I laghi restituiscono le vestigia di una frequentazione umana millenaria, con resti di stupefacenti culture materiali databili ad epoche di molto anteriori alle prime fusioni dei metalli.

I mari non hanno mai dissuaso l’uomo dal solcarli, persino sulle rozze canoe monossili o intrecciate di giunchi. Lo attesta, tra l’altro, il commercio dell’ossidiana sulle rive di quel Mediterraneo dove gli antichi hanno affollato città e porti, "come rane intorno ad uno stagno" da secoli innumerabili. Nelle sue acque hanno sospinto piccoli vascelli o imponenti bastimenti per scambiare grano, vino, statue, marmi... sfidando onde non sempre benevole, anzi, come rivelano gli abissi, a volte impietose. I fiumi sono stati, sì, le migliori vie di comunicazione tra le popolazioni costiere e quelle delle terre più interne, ma anche il più facile mezzo di penetrazione per inesorabili eserciti invasori e per i pirati. Questa alternanza di commerci e di lotte, di partenze e di arrivi, di costruzione e distruzione, di vita e di morte, ha lasciato tracce e documenti consistenti anche sotto le acque... che aspettano di essere riscoperti, per poter raccontare la Storia.

 

(*) Roberto Petriaggi è un archeologo e subacqueo italiano. Dal 1978 al 2010 ha lavorato presso il ministero per i Beni e le Attività culturali. Ha svolto attività di tutela archeologica presso varie Soprintendenze italiane, presso il Servizio Tecnico per l’Archeologia Subacquea (Stas), è stato direttore del Museo delle Navi Romane di Fiumicino e ha diretto ricerche e campagne di archeologia subacquea in Italia e all’estero, particolarmente nello Yemen, in Oman e in Libia. Nel 1997 ha fondato il Nucleo per gli Interventi di Archeologia Subacquea (Nias) dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro (Iscr, già Icr), che ha diretto fino al termine della carriera nel ministero. Per l’Iscr ha svolto anche attività di professore presso la Scuola di Alta formazione per l’insegnamento del restauro e ha diretto importanti lavori di restauro, tra i quali si segnala quello del Satiro Danzante di Mazara del Vallo. Dal 2002 al 2009, inoltre, è stato docente a contratto di Archeologia Subacquea presso l’Università di “Roma Tre”. Dal 2001 al 2010 è stato ideatore e direttore del progetto “Restaurare sott’acqua” per interventi di restauro in situ di strutture archeologiche sommerse in varie località italiane e, principalmente, presso il Parco archeologico sommerso di Baia – Napoli. È autore di numerose pubblicazioni e monografie e, dal 2004, è direttore di “Archaeologia Maritima Mediterranea“, periodico internazionale di studi e ricerche di archeologia subacquea edito da Fabrizio Serra (libraweb.net). Attualmente collabora con la missione in Libia dell’Università di “Roma Tre” ed è anche consulente dell’Iscr per il progetto “Restaurare sott’acqua”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:24