Il palcoscenico secondo David Grossman

Capita e succede di leggere libri che hanno uno sviluppo narrativo scontato e prevedibile, pur coinvolgendo il lettore. Altre opere letterarie, invece, possono interessare il lettore per il modo sorprendente in cui è rappresentata una vicenda umana ed esistenziale. Appartiene, al di la di ogni dubbio, a questa categoria di opere, l’ultimo romanzo scritto da David Grossman, uno fra i principali intellettuali del nostro tempo, intitolato “Applausi a scena vuota” (Mondadori). Nella prima parte del libro compare un personaggio singolare e stravagante, la cui eccentrica personalità colpisce il lettore. Si tratta di Dova’le G., un attore che recita in un teatro di cabaret barzellette e racconta storie esilaranti, pur di divertire e coinvolgere il pubblico che lo segue in platea. Mentre interpreta la sua parte, di attore comico, Dova’le viene colto e sopraffatto dalla tentazione di cambiare il suo spettacolo, per confessarsi in pubblico. Infatti, prima che lo spettacolo iniziasse, Dova’le G. ha cercato di ristabilire il rapporto di amicizia con un suo vecchio amico di infanzia, divenuto giudice, Avishai Lazar. Infatti, e questo è l’aspetto che sorprende il lettore, è proprio il suo amico in prima persona che racconta in un breve monologo nel libro come Dova’le lo ha ritrovato, dopo molto tempo. La narrazione è divisa in due parti, tra la confessione che Dova’le tiene sul palco e i pensieri che il suo amico, il giudice Avishai Lazar, rimugina nella sua anima tormentata.

Il giudice, ascoltando il suo amico dopo molti anni, all’inizio, durante la conversazione telefonica, da la sensazione di averlo dimenticato per sempre. Poi, durante il dialogo, riaffiorano lentamente i ricordi che risalgono al periodo della adolescenza, quando Dova’le e il futuro giudice si frequentarono assiduamente, per seguire insieme ripetizioni private di matematica presso un insegnante privato. Dova’le chiede con insistenza al suo amico, che non vede da molto tempo, di venire ad ascoltarlo in un suo spettacolo, che è in procinto di tenere nella città di Netanya. Il giudice Lazar è, oramai, un uomo solo. Infatti è in pensione e da poco è rimasto vedovo, dopo che sua moglie Tamara è deceduta. Dova’le gli chiede di venirlo a vedere mentre recita sul palcoscenico, poiché è convinto che il suo amico sia in grado, da persona che per tutta la vita ha dovuto giudicare gli uomini, di cogliere la radice profonda che ogni uomo trasmette inconsapevolmente al prossimo.

Lazar, perplesso e titubante, in un primo tempo ha momenti di esitazione, ed è in procinto di declinare l’invito del suo amico, poi, incuriosito, accetta di assistere allo spettacolo teatrale. Ed è in presenza del suo amico e del suo pubblico che Dova’le tiene il suo spettacolo. Il giudice, mentre ascolta Dova’le raccontare le sue storie esilaranti, in preda alla sorpresa ed alla stupore, si accorge che il suo amico attore, grazie al suo talento di affabulatore, è capace di creare una fusione tra il suo io ed il pubblico, sicché cade e si dissolve la barriera che separa il palcoscenico dalla platea affollata dagli spettatori. Ad unire in una vincolo emotivo trascinante il pubblico e l’attore che recita, è l’elemento primario comune ad ogni essere umano.

Tuttavia presto Dova’le, forse perché si trova di fronte al suo amico di infanzia e ad una signora che lo ha conosciuto da piccolo, muta e cambia radicalmente il senso e lo scopo della sua recitazione teatrale. Abbandona, destando sorpresa e sconcerto nel pubblico, il registro espressivo comico e satirico, per declamare una confessione dolorosa in forma di monologo. Ricorda di essere stato concepito dai suoi genitori durante la campagna del Sinai voluta da Abdel Nasser. Con la voce intrisa di dolore e nostalgia evoca la figura dei suoi genitori, oramai scomparsi da lungo tempo. Entrambi i suoi genitori per puro caso sono sopravvissuti alla Shoah. In particolare, confessa che la madre ebbe una grave depressione dopo averlo messo al mondo, il male oscuro che lui stesso, con l’animo tormentato, ha dovuto affrontare nel corso della sua vita.

Senza infingimenti e liberandosi in un soprasalto di libertà espressiva dalla maschera, impostagli dal ruolo di attore comico, che per professione è chiamato ad interpretare, Dova’le ammette e confessa di essere un uomo solo. Come con dolore è costretto a riconoscere, è stato abbandonato, durante la sua vita, dalle donne che ha amato e sposato, dai suoi amici, e perfino dai suoi figli, a cui pure versa gli alimenti. Ascoltando con interesse crescente il suo amico, il giudice Lazar, si accorge, rimanendone profondamente colpito, che il suo amico, a causa di una metamorfosi imprevista, è riuscito con il suo talento espressivo a rendere il pubblico un intimo frequentatore della sua anima e dei suoi tormenti interori. Infatti Doval’le mette a nudo la sua anima e il suo tormento interiore in modo straordinario, alternando il racconto della barzellette con quello delle sue vicende esistenziali. A questo punto dal palco apostrofa Avishai Lazar, al quale chiede se ricorda quanto accadde una volta, tanti anni fa, al campo militare, dove entrambi da adolescenti si trovarono per una esercitazione obbligatoria.

Proprio durante le esercitazioni che si tenevano nel campo militare, Dova’le venne raggiunto da una notizia tragica, proveniente da Gerusalemme. Fu costretto a lasciare il campo militare, i suoi amici e a interrompere le esercitazioni, poiché, essendo deceduta una persona a lui molto cara, Dova’le dovette rientrare nella sua città in anticipo. Durante il viaggio di ritorno verso Gerusalemme, Dova’le, come ricorda dinanzi al pubblico, che inizia ad abbandonare lo spettacolo poiché oramai è dominato da temi dolorosi e tragici, non sa chi sia deceduto. Proprio perché non conosce la verità e non sa ancora chi sia morto, Dova’le tenta di non pensare. Nella sua mente affiorano immagini e ricordi dei suoi genitori. Nel suo monologo, doloroso e sincero, Dova’le con una capacità espressiva sorprendente e ammirevole evoca le sensazioni interiori che ha sperimentato, in uno stato di inconsapevolezza, mentre viaggiava per ritornare a Gerusalemme.

Ammette che mai prima di quel momento era stato ad un funerale e mentre, il dolore gli toglieva il respiro e gli opprimeva l’anima, in preda ad una sofferenza indicibile, ricorda che si rivolse all’autista, chiedendogli di raccontargli una barzelletta. L’autista, dopo avere scoperto che Dova’le non sapeva chi fosse morto, precipitò in uno stato di agitazione e si rifiutò di assecondare la volontà del suo giovane passeggero. Con questo accorgimento narrativo, David Grossman dimostra e rivela che ognuno di noi, nel corso della propria vita, è chiamato a misurarsi con il dolore terribile provocato dalla scomparsa di una persona amata. Nessuno può schivare l’incontro con il dolore. Nel suo spettacolo, quando oramai il pubblico ha disertato la platea del teatro, Dova’le ricorda una frase bellissima che sua madre spesso gli diceva di custodire nel suo animo: “Sii gentile con lui, ricordati che ognuno vive solo per poco e dobbiamo rendergli piacevole il breve tempo che ha a disposizione”.

Questo libro di Grossman è profondo e bello poiché dimostra come il palcoscenico, che simboleggia il valore dell’arte del racconto e della letteratura, sia il luogo privilegiato della verità poetica, grazie alla quale possiamo capire il mistero doloroso della vita umana.

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:28