Ma davvero si può   “Non essere cattivo”?

Ma cattivi davvero si nasce o si diventa? E, soprattutto, per quanto tempo si riesce a sostenere la cattiveria fine a se stessa? Certo, al capolinea molto spesso c’è una fine prematura e cruenta. Si dà e si riceve la morte, con la stessa idiota e irresponsabile indifferenza. Qual è, allora, il messaggio finale in bottiglia che ci invia il regista Claudio Caligari (deceduto per un grave male poco prima dell’uscita nelle sale del suo film “Non essere cattivo”) dall’altro mondo?

Null’altro, se non quella scritta che porta lo stesso titolo del film, stampata sulla maglietta di un orsacchiotto di pezza, appeso ad un’arida croce di legno e rubato dal protagonista per regalare un sorriso alla nipotina che morirà di Hiv, dopo essere stata contagiata alla nascita da sua madre, la sorella di Cesare il drogato, lo spacciatore, il bastardo di borgata? Nulla e tutto, in buona sostanza. Nulla, perché il film è ambientato all’esatta metà degli anni Novanta, e quindi appartiene alla storia di questo Paese, per chi, in quegli anni, aveva l’età di Cesare e Vittorio, i due amici dannati delle storiacce marce di borgata.

Tutto, perché l’opera è un groviglio inestricabile di malaffare da guitti sfigati, passioni violente per donne e amici e, soprattutto, per “lei”: la sostanza. Tutte le sostanze: dalla cocaina all’eroina, passando per i nuovi traguardi delle anfetamine, già circolanti a milioni di pezzi nelle discoteche di allora. Il film è di un verismo esasperato, impietoso come un bisturi che lacera epidermidi apparentemente intatte, per andare a pescare in fondo, dietro organi vitali, il tumore sociale che, da allora, avrebbe divorato del tutto queste nostre società moderne. Cesare e Vittorio sono vittime e precursori del circuito infernale della guida sotto l’effetto di sostanze, con l’accompagnamento di una musica techno assordante. Spietato è poi il racconto delle allucinazioni dovute all’abuso di droga, o degli incontri dei due con prostitute sgangherate, alle quali si dà in pasto la coca, come fossero cani randagi, facendole strisciare come gatti per raccogliere ciò che è stato lanciato in terra, con disprezzo; o attraendole come prede da sesso nei sordidi bagni delle discoteche.

Anche i trans non sono più patetici e sentimentali, come nei film precedenti di Caligari, bensì divengono attori e diffusori coscienti di contagio e morte, attraverso lo smercio di droga e il vettore dell’Aids. Le risse, il “ferro” (la pistola) mostrato ai rivali che contendono ai due soci le misere piazze della borgata e dei quartieri più centrali sono ambientate lungo strade in rovina e spiagge di un litorale romano abbandonato a se stesso, nella più totale incuria e disinteresse da parte delle amministrazioni locali. E, in mezzo, come vittime di un immenso naufragio, gli arredi urbani di una comunità marginale, ormai disastrata, che non vede più né le macerie né i cumuli di spazzatura di cui si circonda, con indifferenza e cinismo. A casa di Cesare (zio accudente e disperato) rimangono una madre onesta, in attesa di un figlio sempre fuori di casa, e una bimba innocente, priva di colpe, che la notte dorme stretta all’unico uomo superstite della casa.

La strada diviene notte, buio, merda, sperma e sangue, con assoluta continuità nelle diverse sequenze. Perché Caligari non ha alcuna voglia di minimizzare una realtà antropologica sempre più cruda, disumana e alienata, risucchiata come in un vortice nella fossa delle Marianne da un fiume inarrestabile di droga. Le divise (polizia e carabinieri) hanno un ruolo marginale: intervengono per sedare qualche rissa di troppo o come, nel finale, fanno irruzione in un misero casolare ristrutturato alla “come si può” da un Cesare morente, per una rapina andata a male (e con un fucile a canne mozze scarico!), e dall’unico vero amore della sua vita: l’ex fidanzata di Vittorio!

Che cosa rimane dunque in piedi per non essere davvero cattivi fino in fondo? L’amicizia vera, profonda e indissolubile tra Vittorio e Cesare (rispettivamente interpretati magistralmente dagli attori Alessandro Borghi e Luca Marinelli), laddove quest’ultimo alterna peccato e redenzione, per finire definitivamente con quest’ultima, dopo la morte dell’amico, accontentandosi di una vita faticosa di stenti, assieme alla sua nuova compagna, autrice consapevole e determinata della sua redenzione. Il finale è struggente, amorevole e pieno di speranza per il futuro, perché il ciclo nascita-morte si compie sempre, all'infinito, finché la nostra specie avrà vita su questa Terra.

Un film per stomaci robusti e per tutti coloro che hanno fino in fondo il coraggio di guardare alla realtà in cui viviamo!

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:30