I ciliegi di Cechov

È possibile che un giardino coincida con il mondo intero? Sì, qualora si stia parlando di Čechov e del suo "Il Giardino dei Ciliegi", in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 15 di novembre, con la regia di Luca De Fusco. Per la restituzione scenografica dell'opera, il regista ha scelto come sintesi un muro e una scala rigorosamente in bianco. Il primo, oltre a richiamare la recinzione murale perimetrale del Giardino (invisibile e incombente), tende a ricordare l'oltraggio del tempo che passa. La vetustà (e incuria) sono descritte da crepe che vanno in profondità, come le ferite e le lacerazioni materiali, morali e spirituali di chi vi abita e vi ha abitato. Così, le crepature diffuse come un sistema venoso lungo le pareti rendono l'idea della violenza del tempo che passa e, soprattutto, della rarefazione progressiva delle risorse finanziarie, oramai inaridite, per mantenere in ordine la grande proprietà. 

Come nel dramma di Ivanov, Čechov ripete a memoria il suo tessuto narrativo di sempre, in cui i personaggi sono segni e maschere di sconvolgimenti profondi, presenti come sostanza incandescente nel sottosuolo di una società in attesa del suo "Big-one". La Rivoluzione d'Ottobre e la macelleria sociale del prima e dopo 1917 sono tutti là, in sempre più rapida gestazione, nelle scene e nel dipinto cosmico del Giardino. La nobiltà decaduta, colta, nullafacente, internazionalista e irreversibilmente decadente, è preda della nascente borghesia agraria, avida e rapace, costituita da fattori e massari che, come nel Giardino čechoviano, da servi della gleba diventano padroni, impossessandosi dell'intera proprietà che essi stessi hanno contribuito a devalorizzare e a fare andare in malora, per pagarla quattro soldi alle aste fallimentari.

Accanto a loro Čechov tratteggia il profilo di una Intellighentia che non sa progettare altro futuro concreto, oltre alla propria, abnorme affabulazione, benché certe parti dell'analisi socialista sui mali incurabili della società zarista russa, ormai solo in coma vigile, siano del tutto fondate. Del resto, bastava non nascondersi nei vuoti intellettualismi per accorgersi di un'umanità dolente, talmente stridente con l'ostentazione del benessere dei nobili, che sopravviveva appena nelle malattie, nel sovraffollamento e nella fame nera, fattori costitutivi dello stato miserrimo dei più e del sottoproletariato operaio urbano, in particolare.

Tutto è bianco nella scenografia. Come il colore del Mantello dei fantasmi. E tali appaiono, allineati in bell'ordine, in fila di uno, in cima alla scala (passerella e luogo di transizione delle sezioni autonome del dramma), i personaggi chiave del racconto čechoviano. Lei, la bellissima maitresse, fuggita in Francia a sperperare in una vita dissoluta il poco denaro rimastole, in fuga dal ricordo lacerante e intollerabile dell'unico figlio maschio morto bambino. La figlia minore, desiderata dall'intellettuale spiantato; e quella maggiore, lasciata invecchiare nella proprietà di famiglia, vittima e ostaggio innamorato del massaro-predatore, incapace quest'ultimo di esprimere altro sentimento al di fuori del piacere sado-maso dell'accumulo e della gestione del denaro. 

La scala è la passerella naturale di chi va e chi viene. Del passato e del presente di un'intera famiglia scompaginata e solo temporaneamente ricomposta. Pochi mesi e giorni, per stare di nuovo insieme, dopo tanti anni di assenze: il tempo strettamente necessario a vedersi esplodere ai quattro angoli della Russia e del mondo, dopo l'atroce crollo del mito del Giardino dei Ciliegi. Un plauso collettivo a tutti gli interpreti, davvero sempre all'altezza delle attese anche dello spettatore più esigente, e una menzione del tutto particolare alla bravissima protagonista, Gaia Aprea nella parte di Ljuba. Cechov, probabilmente, si sarebbe dichiarato certamente soddisfatto di questa contemporanea messa in scena del suo intramontabile spettacolo!! 

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:19