Mark Rothko: “Rosso” sangue al Teatro India

I dipinti “sanguinano”? A volte sì. Soprattutto se vi chiamate Mark Rothko, vivete a New York negli anni Sessanta e siete il padre dell’espressionismo astratto. La storia dell’artista e la sua avventura umana sono ricostruite al Teatro India, dove va in scena fino a domani “Rosso”, per la recitazione encomiabile di Ferdinando Bruni e della sua spalla (nel ruolo di aiutante apprendista pittore, Oliver Steindecker ), Alejandro Bruni Ocaňa. Sullo sfondo della scena dimorano in perpetuo grandi quadri in cui i vari colori di rosso sono stesi a superficie piena con una pennellessa intinta in un capiente secchio di vernice. L’effetto è di una provocazione assoluta: come si può definire “Arte” una cosa così? Angosciante, repellente e spaventevole in modo ancora più intenso e drammatico de “L’Urlo” di Munch. Poi, con quelle due spesse righe nere, stese con la stessa tecnica in verticale, a indicare simbolicamente le sbarre, la coercizione, la prigionia alle quali si oppone disperatamente l’enorme campeggiatura in rosso, che tenta di evitare in ogni modo l’avanzare del buio, del fine vita.

Tutto si complica, però volendo dare una giustificazione razionale al fatto che un suo quadro, ”White Center (Yellow, Pink and Lavender on Rose)”, sia stato venduto nel maggio del 2007 da Sotheby’s di New York per la stratosferica cifra record di 72,84 milioni di dollari! Allora, chi muove le fila di tutto ciò? Gli speculatori delle case d’aste, i collezionisti senza scrupoli o i critici prezzolati, o tutti questi attori messi assieme? Beh, per la verità Rothko li disprezzava a pari merito, visitatori di mostre e di musei compresi, in quanto il suo smisurato e sconfinato ego sosteneva che nessuno al mondo potesse capire la sua arte. E, forse, anzi certamente, nemmeno lui stesso. Domanda: le sue ossessive colature e colorature sul rosso sono, o no, un riflesso della Shoah di un ebreo russo trapiantato negli Usa?

Rothko è un personaggio violento, intollerante, dedito all’alcool con cui annega il suo spleen perennemente turbato, asociale, dispotico e per nulla interessato alla vita degli altri. Tantomeno a quella del suo assistente, che sfrutta senza ritegno coprendolo di insulti e arretrando solo per qualche istante quando quest’ultimo, di rimando ed esasperato, gli grida in volto tutta la sua furia iconoclasta indirizzandosi irriverentemente a quell’uomo che si crede un artista sacro e che lui vede, invece, come un normalissimo essere umano. Un candidato al suicidio, in pratica, stordito dai miasmi di un’arte che continua a non farsi possedere, malgrado che Rothko sia capace di starsene per decine di ore e giorni a contemplare una superficie piatta, di un colore monotono e ripetitivo, perché gli irradi verità nascoste e “parlanti”.

Molta parte dello spettacolo è dedicata sia ai ricordi delle sue comunanze con artisti notissimi dell’epoca, come Pollock, che il suo assistente adora, sia alla commessa che nel 1958 il famoso architetto suo amico, Ludwig Mies van der Rohe, gli affidò per dipingere una serie di murales all’interno del ristorante Four Seasons per supervip miliardari, collocato in seno al Seagram Building di New York. Progetto su cui Rothko lavorò per più di un anno, per poi rinunciare alla commessa stessa.

La parte in assoluto più interessante è l’approfondimento che ne fa l’autore della ragguardevole cultura umanistico-filosofica e artistica di Rothko, che finirà travolto suicida dalle sue stesse contraddizioni inconciliabili.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:33