A Monticchiello cinquant’anni di Teatro Povero

sabato 23 luglio 2016


Se per l’Unesco la Val d’Orcia è patrimonio mondiale dell’umanità, Monticchiello - un suo borgo medioevale di duecento anime - rappresenta un’eccezionale ricchezza antropologico-culturale. Qui infatti dal 1967 si rappresenta il Teatro Povero, con uno spettacolo annuale - “Autodramma” - che coinvolge l’intero paese. Per il cinquantenario (in piazza dal 23 luglio al 14 agosto), il titolo sarà “Notte di attesa”. Ce lo presenta il direttore artistico e regista, Andrea Cresti.

Quest’anno – ci spiega – la scelta è caduta su un tema d’attualtà sentita, cioè le grandi difficoltà che ci assillano giorno dopo giorno: abbiamo un piccolo popolo che ha deciso di chiudersi dentro le mura per difendersi dall’angoscia. Questo pone, ovviamente, la possibilità e la necessità di un dialogo tra i cittadini, che è un confronto dialettico forte. Per verificare se il mondo esterno è veramente inquieto come sembra, decidono di guardarlo dalle mura, perché forse è un po’ diverso da quello che viene descritto. Però c’è nebbia, e allora l’ansia aumenta. Poi la foschia se ne va, e quello che si vede allude alla realtà, ma deformata dalla preoccupazione. Quindi la decisione finale è: buttiamo giù tutti i muri, andiamo nel mondo e vediamo che possiamo fare. Chiuderci non serve.

A partire dalle assemblee di gennaio come funziona, durante l’anno, la preparazione della messinscena?

A fine marzo c’è la presentazione di una scaletta, sintesi di quello che potrebbe essere lo spettacolo, con alcune indicazioni più precise per eventuali aperture o correzioni. Da lì in poi c’è la scrittura vera e propria, a fine maggio viene presentato ufficialmente il testo e si comincia a provare tutte le sere, qualche volta anche di pomeriggio. Dopo averne discusso con gli attori sul palcoscenico, faccio le modifiche che ritengo opportune; tale prassi va avanti anche durante le rappresentazioni, pure per modifiche all’apparato illuminotecnico o alla fonica, quando ci rendiamo conto che qualcosa può essere cambiato, migliorato o tagliato. Questa è una nostra condanna, che però fa anche parte del fascino dell’operazione: non c’è un’anteprima, quando la creatura è pronta va sul palcoscenico, e lì si verifica.

Quindi, una fusione tra teatro di ricerca e il rituale di una comunità, con attori fissi che nel trascorrere degli anni diventano quasi delle maschere e raccontano se stessi?

Quantomeno portano in scena i propri sentimenti, che si modificano nel corso del tempo. Questo è legato alle tematiche scelte; ovviamente ognuno di noi ha un suo punto di vista, però durante le assemblee pubbliche - aperte anche a chi viene da fuori - cerco sempre l’elemento comune a tutte le chiacchiere, perché poi spetta a me la sintesi. È una mediazione, per capire se tutti coloro che hanno espresso un parere si riconoscono perlomeno nel percorso, per cui poi possono, e debbono, introiettare i concetti, condividerli e farne parte direttamente, e anche razionalmente.

Ci sono pure delle criticità: il timore di diventare un museo all’aperto, la crisi più generale (non solo economica), la difficoltà di coinvolgere i giovani.

Il pericolo c’è sempre, però l’abbiamo sempre allontanato, esorcizzato discutendone sul palcoscenico - perché fa parte del Dna di quest’esperienza - senza un eccesso di critica e autocritica, ma anche senza autocensura. Quello dei giovani è un problema, ma cerchiamo di reagire, ad esempio con laboratori dai 6-7 anni e anche per i più anziani, per incontrarsi prima ancora di andare sul palcoscenico e discutere il testo. Forse la criticità più evidente è che dopo 50 anni le fatiche si fanno sentire, e bisogna stare molto attenti ad evitare il ripetersi, perché sennò si diventa uno stereotipo fastidioso. In assemblea dico sempre: “Quando non avremo più niente da dire, smettiamo un passo prima”.

Il granaio, sede della cooperativa nata nel 1980 grazie al teatro, è l’epicentro della vita pubblica del paese?

C’è anche il museo del teatro popolare tradizionale toscano, con un piccolo accenno alla nostra vicenda, che direttamente non ha nulla a che vedere con quello, però comunque le radici sono comuni. Il granaio, del 1700, è un punto d’incontro con sotto una sala convegni, poi c’è un teatrino in piazza e la taverna di Bronzone, locale che gestiamo e ci permette un aiuto finanziario.

A questo proposito: una partecipazione allargata, con una presenza media di 4mila persone, ma allo stesso tempo fondi pubblici sempre più esigui…

Praticamente si stanno estinguendo, anche se le istituzioni ci hanno sempre tenuto in alta considerazione, e questo per noi è molto importante, anche dal punto di vista morale.

La celebrazione dell’importante anniversario cosa comprenderà?

Una mostra dell’archivio fotografico, dei costumi, documentario, e un convegno ad ottobre per fare il punto, perché dalle nostre parti l’ultimo, sul teatro di ricerca, è stato a Montepulciano nel 1974. Vogliamo realizzare – conclude Cresti – una piccola sintesi di quello che è stato il nostro percorso, cercare di capire cos’è Monticchiello oggi e anche il futuro.


di Federico Raponi