Benessere non significa felicità

Il lato oscuro dello stato sociale più avanzato. Guardando a figli cresciuti unicamente dalle madri, anziani morti in solitudine, suicidi, lo analizza Erik Gandini (già autore di Videocracy) nel suo nuovo documentario la teoria svedese dell’amore, da giovedì scorso nelle sale distribuito da Lab 80. Ne abbiamo parlato con il regista, arrivato in Italia per presentarlo.

Da dove viene il titolo?

Il film parla dell’idea di autonomia dell’individuo, che in Svezia si vede più che altrove, trattandosi del Paese dove - dall’inizio del “welfare state” - c’è stato il pensiero dominante secondo il quale bisogna essere liberi gli uni dagli altri. Lo Stato garantisce quest’autonomia, per cui gli anziani non devono stare a carico dei figli, i giovani possono andar via di casa presto, nelle coppie non deve esserci dipendenza l’uno dall’altro: la teoria svedese dell’amore, appunto.

Tutto nasce da un manifesto elaborato dal Parlamento svedese nel 1972, attenzionato anche dall’Unione europea

Sono le fondamenta del welfare, il manifesto - “la famiglia del futuro” - voleva liberare i cittadini dalla dipendenza parentale, era rivolto soprattutto alle donne che dovevano emanciparsi, rompere il ruolo tradizionale di casalinghe. All’epoca è stato molto progressista, ma non poteva prevedere l’avvento del neoliberismo, dell’individualismo. Ha comunque posizionato la Svezia tra i Paesi più moderni del mondo, anche se c’è un risvolto esistenziale che a me interessa molto e ha a che fare con il distacco tra le persone. Il che è sicuramente frutto del benessere, in un luogo in cui non ci si deve per forza aiutare, essere uniti e solidali, perchè le condizioni sono tali da offrire libertà gli uni dagli altri.

In che ambiti si è mosso il documentario?

Esplora i buchi neri, le ombre di quest’idea, ad esempio c’è una storia su persone sole - anziani soprattutto - che vengono trovate defunte in casa mesi, addirittura anni dopo, ed esiste un istituto che si occupa di tali casi, piuttosto frequenti. C’è poi un capitolo sull’autofecondazione, molto futurista ed emergente, che dà alle donne la possibiltà di far figli da sole.

Alcuni suoi interlocutori nel film rilanciano - di contro - la condivisione, il prendersi cura di un’altra persona che sta alla base dei rapporti amorosi

La libertà vista come la possibilità di realizzarsi da soli, di avere se stessi come progetto principale della propria vita, è un’idea che secondo me domina il mondo occidentale, e la Svezia l’ha materializzata in modo molto efficiente. Il film è stato girato anche in altri Paesi, come Messico, Spagna e Polonia, dove c’è il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, che forse più di tutti ha pensato, scritto su questi argomenti e propone l’idea di “interdipendenza”. Riconosce il fatto che la felicità non si può raggiungere da soli, esiste quando è condivisa, e non possiamo credere di essere liberi gli uni dagli altri in quel modo che promette benessere, facilità, una vita senza scontrarsi con gli altri, esporsi al diverso, la frizione della quotidianità sociale. Tutta questa comodità lui ritiene che porti alla noia, ed è un concetto che ho trovato legato a quanto cercavo di raccontare in modo emotivo, più che attraverso un dibattito sociologico: è un film con personaggi e storie.

Come sostengono altri nel documentario, rispetto ai vantaggi di uno Stato che soddisfa necessità è anche vero che di fronte alle difficoltà la persona è spinta a un’assunzione di responsabilità, e attraverso di esse sviluppa se stessa

In Svezia, più che in altri posti, puoi avere la possibilità di fare una vita per conto tuo, chiudendoti nella tua “privacy”. Lo Stato ti garantisce autonomia, paga qualcuno che ti venga ad aiutare se sei anziano, c’è una “istituzionalizzazione” dei rapporti umani che funziona attraverso una garanzia molto democratica, non devi per forza essere ricco per sopravvivere e star bene. Però mi interessava mettere a fuoco il retro della medaglia, di una vita perfetta che offre libertà dagli altri ma è sicuramente una delle false promesse della modernità.

Nel film è riportato un grafico con due assi, uno dei quali rappresenta le risposte ai bisogni mentre l’altro le regole etiche delle società: ad un estremo c’è la Svezia, nell’altro un’area africana

Si chiama “mappa dei valori”, un prodotto accademico in cui sono posizionati i Paesi del mondo: in alto a destra quelli più ricchi, in basso a sinistra i poveri. Nel film c’è un capitolo su un chirurgo svedese che si è trasferito in Africa, ci spostiamo dalla Svezia - da sola in cima al progresso - e dalla parte opposta troviamo un personaggio che dopo trent’anni di carriera rinuncia a una vita privilegiata, va con sua moglie in Etiopia e lì si trova meglio, per una questione di valori. Lì le condizioni di vita sono tali per cui ci si deve aiutare per forza, la solidarietà esiste come dato di fatto, e nella sua scoperta della semplicità quest’uomo trova una grande fonte di riflessioni sulla direzione di un progresso che lui mette in discussione.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:21