Bob Dylan, un Nobel molto “silenzioso”

In tutto il mondo sono in molti ad interrogarsi su cosa possa significare la mancanza di un qualsivoglia commento di Bob Dylan sul prestigioso premio Nobel conferitogli dalla Reale Accademia di Svezia. Anche in Italia la stampa se n’è occupata ampiamente, riportandoci le voci più disparate che vanno dal dissenso all’esultanza. Come pure, ai tentativi più fantasiosi di interpretare il suo assordante silenzio. Snobismo, timidezza, arroganza? O cos’altro ancora?

Volentieri me ne sarei stato in disparte a gustarmi questo ennesimo e vano tentativo di voler trovare a tutti i costi un’interpretazione quale che sia per uno dei personaggi pubblici della nostra epoca, da sempre non incline a lasciarsi intrappolare in ruoli, definizioni ed etichette. A stanarmi sono riusciti alcuni amici, con i quali nel corso di quasi mezzo secolo non c’è stata una volta in cui parlando di cose americane non spuntasse il nome di Dylan, legato a quegli anni di intense campagne pacifiste e per i diritti civili che segnarono la consapevolezza di intere generazioni. Da noi, i più attivi su quel fronte erano i Radicali di Marco Pannella.

Non c’è dubbio che sia incalcolabile il numero di quanti, a qualsiasi latitudine del globo, abbiano imparato a riconoscere il timbro tra lo stridulo ed il graffiante della voce nasale con cui ci arrivarono le sue prime canzoni, poi entrate (e restate) nel mito dilagante della controcultura americana. A partire dagli anni Sessanta, attraverso una mirabolante evoluzione di stili e di tematiche. Oggi però il focus attenzionale è concentrato sulla questione del Nobel 2016 per la Letteratura a Bob Dylan e della sua mancata risposta ai vari tentativi di parlargli effettuati dalla segreteria del premio.

Difficile dire qualcosa di nuovo o di originale rispetto a quanto è stato già detto. Ma visto che mi viene chiesto, ci proverò. Intanto, nel 1970, la laurea ad honorem era già stata conferita dalla Princeton University. Il che, dato il prestigio dell’ateneo statunitense, è tutto dire. Anche in Italia però, e per fortuna c’era Fernanda Pivano che da Milano ci teneva aggiornati con articoli e pubblicazioni di successo che facevano storcere il naso agli accademici. All’Università di Bari, però (mi risulta direttamente), il nesso tra Bob Dylan e la Letteratura era ritenuto plausibile: nella Facoltà di Lettere dell’Ateneo pugliese uno studioso anglo-americanista tra i più versatili e stimati d’Italia, Vito Amoruso, accettò di seguire nel 1975 la mia tesi di laurea su Bob Dylan . Ricordo ancora perfettamente che il professore mi aveva inizialmente suggerito di concentrarmi su Lawrence Ferlinghetti, un’altra icona storica della Beat Generation, alla quale Amoruso aveva appena dedicato una squisita pubblicazione (“La letteratura beat americana”, Laterza, Bari 1975, più volte ristampato). Quando però io gli proposi un’analisi delle liriche di Dylan nell’alveo del retroterra storico-culturale del dissenso americano (bibliograficamente corroborati, per intenderci, dalla lettura di Henry David Thoreau per arrivare a William Appleman Williams, Richard Hofstadter e Theodore Roszak), la sua esclamazione fu un compiaciuto “addirittura!”, incorniciato da un ampio sorriso tra il complice ed il divertito. Al che, per rassicurarlo, aggiunsi subito che in seduta di laurea non mi sarei presentato con la chitarra e l’harmonica holder alla Woody Guthrie!

Ma oggi? Come reagire a quest’ultima sollecitazione a pensare qualcosa di appena moderatamente sensato, che ci giunge da Mr. Robert Allen Zimmerman (questo il vero nome all’anagrafe di Bob Dylan - alias Shabtai Zisel (Zushe) ben Avraham come è chiamato dagli ebrei di diversi continenti? Sul Dylan ebreo molto è stato scritto in America. Da noi se ne sa un po’ meno, nonostante fonti bio-bibliografiche, ipotesi ermeneutiche fondate sui testi ed un’ampia aneddotica abbondino anche in Rete: frequentazioni rabbiniche in diverse sinagoghe sin da giovanissimo, sue foto anche recenti con i paramenti della liturgia del culto israelitico.

Ma torniamo al punto. Partiamo dai fatti certi. La notizia del Nobel viene diramata mentre Dylan (75 anni compiuti lo scorso 24 maggio) era a Las Vegas per un concerto dove il pubblico aveva pagato un biglietto per sentirlo cantare dal vivo. E mi chiedo: cosa avrebbe potuto fare il cittadino americano Zimmerman, il musicista con all’attivo oltre cento milioni di dischi venduti e già gratificato dal presidente Barack Obama nel 2012 con la Gold Medal of Freedom, il massimo riconoscimento Usa per meriti civili a favore della Pace? Doveva forse interrompere l’esibizione dinanzi ad un pubblico disomogeneo per età, origini, ceto sociale ed etnia, magari poco informato sulle istituzioni culturali europee? E per fare cosa, poi? Per dir loro quanto fosse compiaciuto per la nuova onorificenza assegnatagli? E siamo sicuri che, a parte i cronisti, i presenti avrebbero gradito questa oggettivamente poco professionale ed auto-celebrativa divagazione dal palco di un live concert? Qualche dubbio è lecito averlo. Certo, si dirà ancora, come si è pur detto, Dylan avrebbe potuto dare un segnale almeno dopo. A noi risulta che mentre l’artista era alle prese con una tappa importante del suo Never Ending Tour, alle chiamate della Reale Accademia di Svezia i suoi managers hanno risposto e, almeno fina alla data della cerimonia di novembre, a Stoccolma questo è stato ritenuto sufficiente. Siamo proprio certi che servisse un press-release dell’interessato? E a che scopo? Per alimentare – qualsiasi cosa avesse detto – le polemiche intanto divampate sui mass media di tutto il mondo su un premio per la Letteratura dato ad un musicista ebreo statunitense? Dylan non ha mai negato di essersi ispirato in molti dei suoi testi ad antiche preghiere ebraiche, alcune delle quali scolpite sulle tavole d’argento dei giorni del Primo Tempio: come ha ricordato non più tardi di alcuni giorni fa Yair Lapid, un autorevole membro della Commissione Affari Esteri e Difesa del Parlamento israeliano (Knesset).

Oltretutto, i giornali li leggono anche i cantanti. Magari anche solo sui titoli delle rassegne stampa, il nome dell’artista viene citato. E sappiamo tutti cosa si è scritto negli stessi giorni in cui montavano le critiche verso un’altra istituzione artistico-culturale come l’Unesco. O si sarebbe voluto che un personaggio difficile come Dylan, già per suo conto da sempre schivo e refrattario alle incursioni dei media, si lasciasse tirare per il bavero sulla delicata vicenda internazionale del voto su una improvvida dichiarazione sui luoghi sacri degli Ebrei, passata con il voto contrario degli Stati Uniti e tante astensioni, tra cui pure quella italiana?

La querelle è ancora in corso ed è una vicenda che anche a molti osservatori non di parte è apparsa irriverente per la millenaria sensibilità ebraica, come per la stessa tradizione giudaico-cristiana. “Allucinante”, l’ha subito definita il premier italiano Matteo Renzi, che per il premio assegnato ad un artista come Dylan è stato tra i primi a felicitarsi a poche ore di distanza dalla scomparsa di un’altra non meno discussa icona del palcoscenico e premiato col Nobel, Dario Fo: il quale aveva detto che se quest’anno il Nobel fosse stato dato a Dylan, lui sarebbe stato contento.

Ove ciò non basti, accademici, linguisti e letterati italo-scettici potranno confrontare i propri patemi con le positive espressioni per la scelta decisa dalla giuria del Nobel fatte da uno studioso stimato come il professor Tullio De Mauro, che è tra l’altro un ex ministro della Repubblica. A quanti da noi hanno reagito quasi scandalizzati per l’accostamento del cantautorato come genere alla grande Letteratura (Baricco, Scarpa e altri) verrebbe di rispondere che in Democrazia sono rispettabili anche le dissenting-opinions.

Gli italiani di qualsiasi età, credo ed orientamento politico, sanno bene che il nostro Paese è storicamente sempre stato una delle tappe toccate dai tour di Bob Dylan. A Roma non aveva ancor compiuto 22 anni quando, nel 1963, semisconosciuto, si esibì a Trastevere nel mitico Folkstudio di via Garibaldi 59. Memorabile rimane la sua esibizione nel 1997 a Bologna, dove cantò per il Papa polacco Karol Wojtyła ad un concerto nell’ambito di un congresso eucaristico. Nella Capitale è tornato ancora nel 2013, dopo essere stato anche a Padova ed a Milano, mentre l’anno scorso si è esibito a Lucca con Francesco De Gregori. Verrà ancora nel Bel paese. E ad aspettarlo ancora saremo in tanti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:37