L’intervista a Timi

Come attore di una delle più celebri opere di Henrik Ibsen, per un’interpretazione maschile trina, Filippo Timi si è affidato a traduzione, adattamento, regìa di una donna, Andrée Ruth Shammah. Gli chiediamo di questo importante passaggio artistico.

Com’è finito dentro “Una casa di bambola”?

È tanto tempo che sto al Teatro Parenti di Milano, anche se è la prima volta che realizzo qualcosa con Andrée. Erano anche un po’ di anni che non mi facevo dirigere solo come attore. Inizialmente è nata la voglia di lavorare insieme, anche con Marina Rocco (nel ruolo di Nora, ndr), poi abbiamo trovato un testo che ci piaceva. Andrée ne ha dato un’interpretazione piuttosto provocatoria, che mi piace moltissimo, e poi ha avuto la trovata dei tre ruoli per me: “Mi piace l’idea che tu rappresenti un po’ tutto il mondo maschile che ruota attorno alle due figure femminili”, e quindi ci siamo buttati dentro quest’avventura abbastanza colossale, almeno come opera. È un classico, quindi siamo davvero sostenuti da parole e sentimenti straordinari che vanno oltre le proprie esperienze umane.

Ibsen viene portato spesso a teatro, anche in Italia, in particolare questo lavoro. Quali le sembrano i suoi elementi di attualità?

Sono banale, ma mi piace pensare che un classico sia tale perché contemporaneo. Attraverso questa storia, Ibsen è riuscito a raccontare una complessità di rapporti tra i sessi davvero incredibile. E quindi ci parla ancora, in quanto la questione è viva. Poi siamo fortunati che l’abbia saputa scrivere, e noi attori proviamo umilmente a farla vibrare.

Ci rivela qualcos’altro della rilettura di Shammah?

È importante che sia stata vista, finalmente, come la storia di una donna che si emancipa e abbandona la casa di un marito padrone e dei suoi tre figli. Per affrontare qualsiasi ruolo, io non devo giudicarlo, e quindi sono andato ad attaccarmi a quello che è più prezioso per quest’uomo, tutta la fatica che ha fatto per arrivare alla sua posizione, anche per la moglie, che per lui è importantissima, la ama. È come se si mettesse in discussione anche un po’ il femminile, alcune decisioni appaiono provocate, più che subìte: la protagonista sembra che manipoli i tre uomini, e perciò è come se la palla fosse al centro del campo. Quando si perde l’amore, si perde entrambi, sia uomini che donne: questa, secondo me, è la tesi nuova.

Rispetto al suo triplice ruolo?

All’inizio dell’analisi, un po’ poeticamente io e Andrée li abbiamo immaginati come tre fiumi: il marito è un corso d’acqua calmo, pieno, denso, ragionevole, che cerca di scorrere dritto, ha le sue dighe, i suoi parametri. Poi c’è il dottore, un ruscelletto che sta per morire, innamorato della moglie dell’amico, e infine l’altro, Krogstad, un fiume tortuosissimo, pieno di sassi e buche, che deve ancora farcela. È come se fossero tre fasi dell’uomo: come è importante difendere il punto dove uno è arrivato, lo è altrettanto combattere per cercare di migliorare la propria condizione di vita. Invece, per il secondo personaggio, a mio parere lo scoglio è accettare il fatto che la vita oramai sia andata. Non è facile, però è entusiasmante.

Come considera l’esperienza al Teatro Parenti?

Sono andato ad abitare a Milano anche per il “Parenti”, dove ho trovato una situazione non solo produttiva, ma proprio un’accoglienza, uno scambio con persone evidentemente a me affini. Insomma, ero nel posto giusto al momento giusto, e infatti sono tanti anni che mi sento “a casa”, e questo è molto bello, scalda.

Nel percorso attoriale, che direzione sta prendendo?

Per me questo spettacolo è un punto non dico di svolta, però è un punto forte, perché subito dopo preparerò il mio nuovo spettacolo. Non mi ero mai davvero concesso così tanto tempo solo come attore, quindi la trovo un’occasione incredibile e credo che - nel bene e nel male - ne pagherò le conseguenze.

Da autore, invece, dove dirige il suo interesse?

Ho ricominciato a studiare la mitologia greca, perché sto creando qualcosa che mi piace ed ha a che fare con l’Umbria. Ma questo a partire dal 9 aprile, dopo la tournée di “Una casa di bambola”, che necessita di un “training”, uno studio, che mi toglie qualsiasi altro entusiasmo per qualsiasi altra cosa.

Lavorare da solo o in gruppo, in che modo vive le due diverse opzioni?

Da solo ci lavoro pochissimo, solamente quando scrivo, perché in teatro, anche quando faccio un monologo, mi annoierei. Lì, allora, ho una persona di cui mi fido che mi guarda, e due-tre amici che mi danno una mano. È chiaro che quando sono io a scrivere e fare regìa c’è un altro tipo di investimento, ma che non vuol dire maggiore. Da attore è molto bello avere qualcun altro che ti dice: “Guarda, hai proposto questo, però secondo me è più giusto quell’altro”, e lo fa vedendoti da fuori, perché io purtroppo ancora non lo faccio.

Tra teatro, cinema e televisione come si sta muovendo?

Il mio sogno resta sempre quello di cantare e incidere un disco, quindi vabbè, continuo a fare queste cose, però penso: “Ma dai, eh?”. Infatti anche in questo spettacolo canticchio, male.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:32