Per una Capitale  mondiale della cultura

Uscire dalla crisi rilanciando la cultura. Questo l’obiettivo dell’incontro cittadino “Roma Theatrum Mundi” (Teatro India, sabato 25 febbraio dalle 10 alle 18), e ne ragioniamo con uno dei promotori, il critico Andrea Porcheddu.

Come si è concretizzata l’iniziativa?

L’idea parte da una chiacchierata con i colleghi e amici critici Attilio Scarpellini, Sergio Lo Gatto, Graziano Graziani. Ci siamo resi conto che c’è da rilanciare il dibattito sullo stato del teatro in città, perché da un lato abbiamo una realtà pubblica, il Teatro di Roma, che è in crescita, sta lavorando molto bene, e dall’altro un’amplissima popolazione di artisti e tecnici, anche di livello, che invece fa una gran fatica. Ci sono spazi che chiudono, altri sgomberati, difficoltà a coinvolgere pubblico, produrre, rispetto ad altre città d’Italia che invece lavorano, e bene, come Milano, Bologna, Genova.

Quando è cominciata la china discendente?

Dagli inizi degli anni Duemila, Roma ha segnato il passo, considerando anche che dovrebbe essere la Capitale mondiale della cultura. Quello che viviamo non è all’altezza di altre metropoli se pensiamo a Parigi, Berlino, Londra; città che si sono anche reinventate proprio su modelli culturali. Da noi ultimamente le questioni si sono aggravate, è un declino costante avvertito da tutti, tant’è che i migliori artisti emersi dalla fine degli anni Novanta sono di fatto emigrati dove hanno trovato ospitalità e produzioni. Forse siamo a un punto di non ritorno, tutti un po’ stanchi, anche noi osservatori viviamo questa fatica quotidiana del fare cultura.

Uno dei motivi di questa situazione è la tendenza, in corso da tempo, a mettere la cultura a profitto immediato, il che, in particolare per il teatro, è un discorso pericoloso, dal fiato corto.

Totalmente d’accordo, tra l’altro la nuova riforma ministeriale del teatro punta molto sui dati quantitativi, proprio sul botteghino, per cui poi si trovano strani ibridi di attori famosi del cinema che provano a fare teatro per richiamare pubblico, spesso con esiti sconcertanti. È chiaro che lo Stato debba investire in cultura, sulla possibilità di far fare teatro e farlo vedere a tutti, non solo a chi si può permettere di pagare biglietti costosissimi o di affittare spazi per mettere in scena i propri spettacoli. D’altro lato, però, anche con la cultura si può fare profitto: con la nuova direzione, la Reggia di Caserta produce anche welfare, cioè una capacità di vita migliore a chi va a visitare quel fantastico sito culturale. Stesso discorso per il Festival di Avignone: gli studi hanno dimostrato che, per ogni euro investito, ne tornano almeno sette in forma di indotto. Sono esperimenti che possono essere motore di sviluppo delle città: abbiamo gli esempi di Bilbao, Barcellona, Glasgow, che hanno un patrimonio culturale decisamente inferiore al nostro, ma che hanno investito sullo spettacolo, sull’arte, sulla creatività e sono rinate, con una scommessa sui saperi anche redditizia per la comunità stessa. Sono convinto che una buona politica culturale possa anche autosostenersi, è paradossale che in Italia vada in fallimento l’Arena di Verona, evidentemente c’è qualcosa che non torna.

Altro elemento è la crisi del teatro come fatto sociale. Il costante calo di pubblico, che investe anche il cinema, è dovuto pure all’avvento del digitale e al venir meno dei momenti di aggregazione.

Anche questo è un punto spinoso e contraddittorio. È un dato di fatto, le famiglie non possono permettersi 35 euro a biglietto per vedere uno spettacolo che poi magari neanche piace. D’altra parte, però, esiste uno zoccolo duro di spettatori, anche numeroso: fino al 2015 i dati di affluenza erano molto alti, quindi c’è una resistenza dell’edifico teatrale come spazio dove ci si incontra, l’unico rimasto a parte lo stadio. A teatro ci si parla, ci si guarda negli occhi: nonostante una politica che va esattamente in senso contrario, il digitale, le fiction televisive, evidentemente questo bisogno è ancora molto forte. C’è poi una vivacità creativa, ma manca una capacità amministrativa di cogliere questi fermenti: non chiediamo miracoli, ma spazi, finanziamenti, strutture adeguate; se per andare all’India non c’è neanche un autobus, è ovvio che non ci si va, mettere una linea di trasporti è un segno di civiltà che porta dei frutti. Altro elemento ancora è il necessario ricambio generazionale, il teatro italiano vive di un manipolo di eroi che sono gli abbonati, però c’è un invecchiamento di questo tipo di spettatori. Allora bisogna trovarne altri, giovani, con un teatro che parli del loro tempo, col loro linguaggio, con artisti che siano loro coetanei. Dare anche spazio a giovani artisti vuol dire trovare pure un giovane pubblico, e quindi rifare del teatro un luogo di discussione viva.

Quella del “Roma Theatrum Mundi” sarà una giornata lunga.

Tanti temi, tanti relatori già iscritti, tanti artisti vogliono partecipare e prendere parola. Ci saranno anche il direttore del Teatro di Roma Antonio Calbi e l’assessore alla Cultura Luca Bergamo, speriamo di uscire da lì con una proposta.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:28