Cristin, “I padroni del caos”

Renato Cristin “I padroni del caos” (Liberilibri, Macerata 2017, pp. 447, euro 20).

Il vento populista – ma in effetti identitario – che tira in Europa e in occidente propizia libri come questo che stigmatizzano teoria e prassi le quali hanno agevolato, se non provocato, la decadenza della Kultur faustiana. Scrive l’autore che il libro ha lo scopo di “mostrare l’esistenza di un ampio e coerente movimento teorico identitario” e “le possibilità di ritrovare il senso del compito storico dei popoli europei di fronte alla minaccia di essere surrogati. Un sottotitolo esplicativo avrebbe potuto così annunciare l’oggetto di questa teoria e al tempo stesso l’interpretazione di tale oggetto: l’Europa tra identità e sostituzione, lacerata oggi tra un tenace radicamento alla propria essenza identitaria, con tutte le sue forme particolari, e una incombente alterazione che assume i tratti di una sostituzione culturale ( e progressivamente anche etnica)”. In particolare è a tal fine essenziale mostrare le imposture che il “pensiero unico ha spacciato con esiti vincenti nell’acquisizione del potere, ma deleteri per l’’identità europea, svelandone la sotterranea congiunzione con parti rilevanti del potere istituzionale e la conseguente instaurazione del caos che caratterizza la costituzionalità”. E, prosegue Cristin “In questa chiave, viene qui proposto, in parte svolto e in parte auspicato, un confronto definitivo, una sorta di resa dei conti, intesa alla lettera come rendiconto, con il cosiddetto sessantotto – pensiero, a cinquant’anni dalla sua eruzione, per confutarlo, archiviarlo e, finalmente, cambiare registro, voltare pagina, disintossicarsi dai suoi veleni, e restituire al discorso dell’identità tutta la dignità e la rilevanza che l’interminabile stagione culturale e politica iniziata negli anni Sessanta gli ha sottratto e negato”,

L’identità è lo strato profondo di una civiltà e di una cultura, e non l’adesione “a orientamenti politici o ad efflorescenze culturali”. Non quindi mode e infatuazioni ideologiche, ma le radici profonde dello stare insieme di ogni comunità umana (religione, diritto, cultura, tradizione). Al posto delle quali si vuole imporre “un universalismo radicale che opera in sintonia con un astratto principio multiculturalista” che si propina marginalizzando “lo spazio dialettico-tradizionale in cui si dovrebbe formare l’opinione pubblica, adottando quasi esclusivamente ormai la diffusione di schemi e proclami confezionati in base a quell’agglomerato etico-pragmatico che si definisce political correctness e che è stato interpretato come “il conformismo ideologico dei nostri tempi”. Accanto a ciò l’autonegazione e l’autoflagellazione di ciò che è europeo, il complesso d’Europa.

La crescita di tali idola, frutto di varie tendenze (pacifiste, terzomondiste, tardo-comuniste, burocratiche) è veicolato “dai maggiori gruppi mediatici e finanziari, dalla quasi interezza dei vettori culturali e delle istituzioni educative, da gran parte della Chiesa (cattolica e riformata) e oggi sostenuto anche legislativamente dalle più forti famiglie politiche (socialisti-democratici e cristiano-popolari”): il che concorre a spiegare la “cattiva salute” di tali famiglie politiche nell’ultimo decennio. La retorica europeista – riproposta tanto più frequentemente quanto più soffre della minore adesione popolare – “è giunta ormai a livelli tanto grotteschi da risultare insopportabile... e perciò si è resa necessaria una sua variazione di tono e di contenuto, un depistaggio teorico-pratico che distogliesse l’opinione pubblica dalle critiche sempre più contundenti (e sempre più fondate e motivate) verso la struttura politico burocratica centralizzata. Il fulcro di questa manovra diversiva è costituito da un doppio nodo tematico: da un lato la cogenza dei provvedimenti finanziario-economici e dall’altro l’esigenza dei principi etico-universalistici”.

Scrive Cristin, “Aver voluto stroncare le nazioni è stato un errore capitale commesso dai buro-politici europeisti, ignari o dimentichi del fatto che le nazioni europee non sono entità artificiali, ma organismi viventi tanto quanto i popoli che le hanno formate”. E insistono nel non comprendere che i “mattoni” dell’edificio europeo sono le nazioni, ed operano per conculcare le identità nazionali: “Anziché valorizzare le singole nazionalità nel contesto continentale, e concepire quest’ultimo come un’identità plurale che può reggersi solo preservando le identità singolari, l’euroretorica proclama oggi: meno nazioni, più Europa, compromettendo così l’unica possibilità che resta all’Unione europea per continuare a sussistere, cioè la libera volontà delle nazioni che decidono di unirsi a agire insieme”. Questo scenario è stato fabbricato “dalla cooperazione fra due figure che tradizionalmente, come ha mostrato André Glucksmann, erano antagoniste: il rivoluzionario e il burocrate... Nella figura del rivoluzionario sessantottesco si concentra dunque il padrone del pensiero; in quella del burocrate il padrone della macchina. Ed entrambi, spalleggiati fino in fondo dai politici d’oggi, sono i padroni dell’Europa”.

E l’autore sviluppa il ragionamento sommariamente riportato in sei diversi capitoli cui fanno seguito i due finali, d’esposizione della terapia”: il nuovo reazionarismo e la connessa rigenerazione dell’identità. Quanto al primo, “Davanti alla crisi del liberal-conservatorismo e al pericolo al quale è esposta la struttura sociopolitica da esso creata, si fa strada la necessità di rafforzarne i fondamenti ma di modificarne alcune strutture operative. Impresa ardua, paradossale, ma non impossibile”; perché come scrive l’autore citando Kertész “l’Europa perirà presto a causa del suo liberalismo puerile e suicidario”; onde “per salvare il liberalismo oggi, bisogna ancora una volta conservarlo, ma integrandolo con innesti... che ne superino le difficoltà teoriche e pratiche, nella prospettiva di conservare una intera civiltà”.

All’uopo Cristin si serve della categoria di reazione “per articolare una risposta costruttiva ai problemi del tempo presente”.

A tal proposito “il fanatismo rivoluzionario è diventato un fattore omogeneizzante di spinte e orientamenti diversi, tutti però appartenenti a un orizzonte anticapitalistico e antioccidentalistico, i quali vengono oggi convogliati verso la destrutturazione dell’identità”; ed è riuscito ad emasculare il pensiero liberale “messo all’angolo e, per paradosso, usato occasionalmente come stendardo per ammorbidire, talvolta, la violenza del sinistrismo imperante”. Oggi è necessario recuperare “l’alleanza strategica tra liberalismo e conservatorismo”, ossia una “filosofia della reazione” (cioè il “diavolo” dell’ideologia rivoluzionaria). Allo scopo da attingere servono a poco sia le posizioni libertarie perché se la società europea “si sgretola fino a sfiorare la decomposizione, allora anche quelle istanze libertarie non bastano più a reggere la struttura sociale complessiva. E lo stesso vale per le posizioni più strettamente conservatrici, che sono disorientate non solo dallo sfarinamento dei fondamenti ma anche dall’eccezionalità e dall’anomalia dell’aggressione, congiunta anche se non unitaria, del progressismo e dell’islamismo”. Occorre un pensiero opposto “allo schema politicamente normalizzato”, fino ad oggi particolarmente sviluppatosi in Francia. Come sostiene Eric Zemmour l’ideologia multiculturale della globalizzazione è “il totalitarismo moderno, una fede messianica e guerrafondaia nel progresso, che trasforma il conflitto tra nazioni in un conflitto all’interno delle nazioni”.

Quanto all’idiologia, ossia la rigenerazione dell’identità si tratta di “definire le possibilità di recupero dell’identità contro l’espropriazione generale in atto, per arrivare a un ritorno al proprio e a un ritorno del proprio, per mezzo appunto di un discorso del proprio: idiologia”; e “Rigenerazione è il superamento del nihilismo, di quella malattia degenerativa della modernità che sta uccidendo lo spirito d’Europa”.

Riconoscere il proprio non significa negare l’altro: anzi l’essere diversi e distinti valorizza il dialogo. Il pensiero unico, che è connotato dall’indistinzione è così necessariamente opposto alla proprietà, mentre il secondo pilastro dell’edificio post-moderno è costituito da “una iperbolica tensione cosmopolitica e dal connesso odio verso il suo opposto, localismo, amore per la cultura locale, patriottismo”: di guisa che “L’idiologia, teoria di ciò che è proprio e dell’autoappropriazione, è dunque l’antitesi della odiologia, di quella teoria dell’odio e dell’espropriazione che appartiene al patrimonio concettuale della sinistra classica e di molte sue variazioni recenti, e che è stata rinvigorita dall’ortodossia del politically correct nella forma dell’intolleranza verso l’avversario culturale e politico”.

La conclusione (principale) che si trae dall’opera è che il nemico reale della società europea non è l’esterno, il diverso, il migrante: è interno è, ancor più, interiore. Infatti l’altro non è un pericolo potenziale per una comunità, se questa mantiene ferme le proprie “coordinate” identitarie: da millenni c’è stato un meccanismo pubblico (e non) per dialogare con il diverso: il riconoscimento. Il quale tuttavia presuppone l’essere diversi.

Ma se al posto della diversità concreta e legittima, condivisa dalle comunità umane, si cerca di propagandare ed imporre un pensiero multiculturale ed universalistico, si perde il vecchio ordine senza realizzarne uno nuovo. Ordine che, come scriveva secoli fa S. Agostino ha sempre una dimensione verticale. Nella post-modernità una verticalità senza ordine. Per l’appunto quella dei padroni del caos.

Aggiornato il 16 giugno 2017 alle ore 19:50