Confessioni e memorie nel libro di Ferruccio de Bortoli

I libri di memorie, di cui sono autori i giornalisti autorevoli, hanno la capacità di cogliere lo spirito del tempo con una efficacia sorprendente. Questo è il caso del libro di cui è autore Ferruccio de Bortoli, ex direttore del “Corriere della Sera” e de “Il Sole 24 Ore”, intitolato “Poteri forti (o quasi) - Memorie di oltre quarant’anni di giornalismo” (Collana “i Fari”, Milano, “La nave di Teseo”, 2017).

La prima parte del libro, in cui risuonano accenti elegiaci legati ai ricordi personali del giornalista, è un racconto intenso del periodo in cui l’autore iniziò l’esercizio della professione, occupandosi di cronaca e scrivendo per la edizione serale del “Corriere”, che all’epoca si chiamava Corriere d’Informazione. De Bortoli è consapevole che spesso l’informazione è autoreferenziale e ostenta un cinismo eccessivo, tratti negativi della figura del giornalista che sia Balzac nel libro “Illusioni perdute” sia Guy de Maupassant nel romanzo “Bel Ami” seppero svelare con rara efficacia descrittiva. Tuttavia, come sosteneva lo studioso e politologo Giovanni Sartori, la pubblica opinione è l’architrave di una autentica democrazia. Questa constatazione presuppone che vi sia una stampa libera e indipendente in un Paese democratico. Infatti i grandi giornali, come ricorda Ferruccio de Bortoli, rappresentano un elemento fondamentale della identità di un Paese, poiché hanno il compito di raccontarne le vicende e offrirne una interpretazione ragionata.

Non può esistere una libertà senza che vi sia la consapevolezza di dover osservare alcune regole, e questo vale in modo particolare per il mondo della informazione e per i grandi giornali. Nel tempo presente in cui accanto alla figura del lettore dei giornali s’impone quella del navigatore della Rete, è essenziale considerare che quanti si affidano a internet per informarsi spesso non possiedono una chiave di lettura per comprendere il senso dei grandi avvenimenti, né hanno la capacità di selezionare le notizie e di disegnare un quadro storico preciso in cui collocarle. Solo un giornale con una identità storica e una solida e riconoscibile tradizione culturale può offrire al lettore un racconto accurato dei grandi fatti della politica, dell’attualità e della cultura.

Nel nostro tempo, in cui l’accertamento dei fatti viene sopraffatto in modo pericoloso dalla tendenza a offrire ricostruzioni imprecise degli avvenimenti, dopo la Brexit e la vittoria di Trump, si è sviluppato un dibattito intorno alla post-verità. A questo proposito de Bortoli cita un saggio del filosofo strutturalista Roland Barthes intitolato la “Retorica antica”, per mostrare come la comunicazione deve avere sempre una dimensione morale ed educativa. Nel libro struggente è il ricordo degli anni di Piombo, quando lautore da giovane cronista dovette raccontare l’assassinio del giudice Guido Calvi, ucciso dai terroristi nel corridoio della facoltà di giurisprudenza a Milano dopo una lezione. Così come è indimenticabile il racconto dell’incontro che ebbe nella casa di New York con Oriana Fallaci, dopo l’attentato alle torri gemelle, in seguito al quale la grande scrittrice scrisse “La rabbia e l’orgoglio”.

Per de Bortoli nella storia d’Italia vi è sempre stato un coacervo di poteri visibili e invisibili che ha influenzato la vita pubblica, fin dai tempi dello scandalo della Banca di Roma nel lontano 1893, che provocò la caduta del governo di Giolitti. Il nostro Paese ha tante piccole e medie imprese, ma purtroppo i grandi gruppi industriali sono pochi, e sono questi che dovrebbero favorire la ricerca per innovare il sistema produttivo. Mediobanca, guidata da un banchiere colto e dallo stile di vita monacale come Enrico Cuccia, è stata un potere forte durante la Prima Repubblica. Bella la definizione di Ferruccio de Bortoli su Mediobanca paragonata ad un centauro, metà pubblico e metà privato. I poteri forti del passato avevano molti vizi e difetti, tuttavia per de Bortoli incarnavano una etica della responsabilità ed esprimevano una idea del Paese. Oggi non esistono più e questo fatto spiega le debolezze del nostro sistema produttivo.

In un libro prezioso Franco Amatori e Andrea Colli, intitolato “Impresa e industria in Italia” edito dalla Marsilio, hanno notato acutamente come i leader delle grandi imprese ebbero nello Stato più che nel mercato il loro costante punto di riferimento. Questa debolezza culturale della grande impresa italiana, estranea ai valori del liberalismo classico, spiega perché i principali imprenditori italiani hanno perduto la sfida della competizione nell’Era della globalizzazione.

De Bortoli, in uno dei passaggi più importanti del suo libro, individua tre modelli di impresa, fra quelle che hanno esercitato un ruolo preminente nella vita economica italiana. Gli Agnelli hanno rappresentato un modello di impresa fondato su di una egemonia responsabile. Gli Olivetti hanno provato a introdurre l’elemento utopico nelle scelte di impresa, la cui redditività doveva finanziare gli esperimenti sociali e culturali. I grandi imprenditori lombardi, come i Pirelli e i Falk, hanno sviluppato attività in favore di politiche sociali tendenti a sostenere un modello di Welfare. Questo libro, che si conclude con i ritratti di alcuni grandi personaggi della cultura, come Carlo Maria Martini, Dino Buzzati e Umberto Veronesi, è importante per capire in che Paese viviamo.

Aggiornato il 21 giugno 2017 alle ore 10:42