Carlo Rosselli, socialista e liberale

A ciascuno di noi sarà certamente capitato, almeno una volta nella vita, che un anniversario sia trascorso senza che ne si ricordasse la memoria, per ritrovarsi poi a convivere con l’imbarazzo della voce della coscienza che incalza dicendo: “Come hai fatto a dimenticartene?”. Siamo sinceri: può capitare! A discolpa del veniale peccato dello smemorato occasionale, va detto che non sempre è facile tenere a mente una data nel continuo e fragoroso turbinio di informazioni, notizie e immagini, che quotidianamente scorrono sotto i nostri occhi.

Potrebbe così essere accaduto a qualcuno dei nostri lettori, fra i tuoni del G7 di Taormina, l’incaglio del progetto di legge elettorale sul nascosto iceberg dei rapporti di forza fra i partiti, il terremoto dei conservatori nel Regno Unito, di non aver fatto caso il 9 giugno all’anniversario dell’uccisione a Bagnoles-de-l’Orne, stazione termale della Francia occidentale, di Carlo e di Nello Rosselli, per mano dei sicari della “Cagoule”, multiforme organizzazione segreta nazionalista d’Oltralpe di influenze naziste. Ottant’anni sono passati da allora e adesso che anche la generazione di chi fu diretto testimone delle catastrofi che martirizzarono l’Europa di quegli anni si sta spegnendo, viepiù fondamentale, di fronte alla reviviscenza di estremismi di ogni colore, pare essere la memoria del sangue già versato per una libertà troppo spesso negletta.

Proprio in occasione di questa ricorrenza, a beneficio sia di quanti ne hanno fatto memoria, sia di coloro che non avendone avuto occasione, vogliano porvi rimedio, è arrivata nelle librerie, edita da Donzelli, l’ultima fatica di Gaetano Pecora, intitolata “Carlo Rosselli, socialista e liberale - bilancio critico di un grande italiano”. In quel sottotitolo - bilancio critico - risiede tutto il pregio di un’opera che lontano dai troppo facili giudizi di valore della retorica celebrativa, si consacra per essere anzitutto paziente lavoro di ricostruzione scientifica. Piace inoltre questo libro per l’onestà intellettuale, che pur esaltando le vette del pensiero rosselliano, nondimeno non si astiene per pudore d’encomio dal mostrarne gli anfratti oscuri e le vie traverse. “Cadde Rosselli? Sì, cadde” (p. 126) - questa è la lapidaria ammissione dell’autore di fronte alla “svolta a sinistra” di Rosselli, che sarebbe arrivato financo a preconizzare l’avvento del nuovo Stato sull’opera palingenetica di quella che l’intellettuale antifascista avrebbe definito “dittatura provvisoria”, la cui opera sarebbe stata dipoi ratificata (ratificare - si badi bene - è operazione diversa dal deliberare) da una costituente formata dai soli partiti di sinistra.

Di certo questo Rosselli - il Rosselli degli Anni Trenta - era ben diverso da quello di dieci anni prima, autore di Socialismo Liberale, il quale andava ripetendo che i socialisti si sarebbero dovuti impegnare “a rispettare i diritti delle minoranze dissenzienti, il diritto di opposizione a qualunque titolo compiuto”, beninteso anche il diritto di opposizione da parte degli esponenti della vecchia classe dirigente liberale.

Dal canto suo Pecora, dopo aver con la precisione dell’anatomista sviscerato le contraddizioni del pensiero rosselliano, è capace di non scadere nell’arroganza dei posteri o nella sbrigativa condanna. In primo luogo se un addebito muove a Rosselli, lo fa con piglio carico di affetto, che lo porta addirittura a domandarsi “ma è veramente Rosselli? È proprio lui a parlare così?” (p. 143), così come farebbe chi soffre degli sbandamenti di un proprio amico, che ha desiderio di veder non tanto condannato, quanto riportato per gli antichi sentieri.

Purtroppo la precoce morte di Rosselli ci impedisce di sapere se nell’antico cuore di liberale sarebbe tornata a crepitare quella fiamma primigenia di tolleranza, allorché la bufera del regime fascista si fosse placata. Proprio per questo motivo tuttavia - per le circostanze difficili in cui Rosselli si trovò a vivere e a scrivere - Pecora invoca l’equità nel giudizio, perché “se è vero che la giustizia è quasi sempre opera dei lontani nipoti, bisogna che questi siano equi” e aggiunge quindi di rincalzo l’autore che: “per esserlo occorre che dismettano l’abitudine di credersi necessariamente migliori dei loro nonni, e che anzi di tanto in tanto raffreddino il loro impeto da giustizieri coltivando l’umiltà di domandare a se stessi: ma, vissuti in quella temperie, cosa sarebbe stato di noi?” (p. 151).

Già, cosa sarebbe stato di noi se avessimo patito i morsi della persecuzione e del confino? Non saremmo forse stati per primi un poco severi non soltanto nei confronti dei carnefici, ma anche dei fiancheggiatori? Ciascuno dia la risposta che crede.

A lode di Pecora va riconosciuto ancora come le sue pagine si muovano nella veste di una singolare eleganza, che è in fondo il suo marchio di fabbrica, ma che ha forse toccato soltanto in quest’ultimo libro il suo apice di padronanza, che quasi atterrisce il lettore di fronte ad una potenza espressiva che lo travolge, estraniandolo dal mondo presente, per catapultarlo dritto al cuore delle idee. Se dunque la ricorrenza è quella giusta, il contenuto di pregio e la forma impareggiabile, non si può che consigliare la lettura di questo volume.

(*) Centro studi Gaetano Salvemini

Aggiornato il 28 giugno 2017 alle ore 12:16