“À l’amour comme à la guerre!”. Questa almeno appare la traduzione cinematografica del romanzo omonimo di Beppe Fenoglio (“Una questione privata”) da parte dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani.

Le atmosfere sono quelle delle Langhe piemontesi ritratte nelle loro meste e inospitali atmosfere invernali, dove tutta la creazione è intrisa di materia umida, ma allo stesso tempo leggera e inconsistente come le lingue di nebbia che allacciano i tronchi degli alberi come nastri trasparenti, rendendo gli abiti degli uomini spugne da strizzare. La storia è semplice e, forse, anche un po’ banale. Ma le fa compagnia un’ottima fotografia, che riempie lo sguardo di primi piani molto intensi e di paesaggi malinconici e maestosi allo stesso tempo, con la roccia severa e dolorosa da arrampicare che fa da cortina al dispiegamento incessante e affannato dei vari presidi partigiani, mobili e inafferrabili.

Giorgio (Lorenzo Richelmy) e Milton (Luca Marinelli), prima di imbracciare il mitra e combattere da clandestini e partigiani contro gli “scarafaggi” (le milizie fasciste di Salò, feroci e sanguinarie) sono dei giovani borghesi agiati, che hanno ricevuto un’educazione medio alta e frequentano case di lusso, come quella di campagna di proprietà della famiglia di Flavia (la protagonista femminile) attorno alle cui stanze e spazi all’aperto ruota l’intera questione sentimentale e una rivalità latente, ma dirompente, tra due amici d’infanzia.

Nel film denso di feedback, Milton e George si trovano a corteggiare la stessa ragazza, Fulvia, platonicamente amata dal primo e (forse) carnalmente dal secondo. Un Milton appassionato di letteratura inglese, non trovando il coraggio di dichiararsi (“giuro che dopo sette passi...”, ma lei non muoverà mai l’ultimo per sentirsi dire da lui che l’ama), si ingegna a scrivere alla sua bella decine di struggenti lettere d’amore. Un giorno del ’44, una pattuglia composta da Milton (che deve il suo nomignolo alla sua grande passione per la lingua inglese) e da un suo compagno d’arme si trova a passare nelle vicinanze della villa, che è una sorta di richiamo alla Nosferatu per il protagonista e tale da fargli dimenticare ogni prudenza, per avventurarsi da solo alla riscoperta dei luoghi della sua grande passione amorosa ed extrapolitica che brucia come una brace, sotto le ceneri di una guerra civile assurda e maledetta. Così, per le parole di una custode, la gelosia si accende come uno zolfanello sul letto delle emozioni stratificate come in un sottobosco arido e secco. Non c’è più guerra partigiana nella sua mente sconvolta, ma solo per l’appunto “una questione privata”, relativa all’esigenza assoluta di conoscere la verità direttamente dalle labbra di Giorgio.

Ma la guerra tra italiani dove i neri fucilano i rossi, e viceversa, con l’aggravante che i primi, scimmiottando le SS, fanno strage (senza risparmiare l’infanzia!) dei contadini ritenuti collaborazionisti che nascondono e aiutano i partigiani, semina i suoi frutti avvelenati ovunque Milton allunghi i suoi passi. Sicché Giorgio il bello, dopo essere stato catturato e massacrato di botte, finisce senza speranza in un carcere fascista. Milton, la lepre braccata da un branco di lupi neri, rinsavirà all’improvviso alla fine di quella sua corsa folle verso il nulla. Film che non ha proprio nulla di simbolico né trascendentale, limitandosi a sostenere un discorso puramente didascalico, in cui le emozioni rimangono chiuse nello scrigno dell’autismo d’autore.

(*) Trailer ufficiale

Aggiornato il 07 novembre 2017 alle ore 11:25