Applausi per Castellitto nei panni di Rocco Chinnici

E no. Non ce l’ho fatta. L’emozione ha prevalso e così, invece di fare la mia bella domanda secca e povera, mi sono commosso alle lacrime. Perché? semplice: all’inizio anni Ottanta, giovane consigliere ministeriale, ho vissuto all’interno dell’altro pilastro istituzionale (il primo, è il versante della magistratura inquirente) per il contrasto alla grande criminalità, l’impotenza dello Stato dinnanzi al dispiegarsi della potenza militare e stragista della mafia corleonese. Ho vissuto in diretta le storie dei caduti, la rabbia dei servitori dello Stato in divisa che volevano farsi giustizia e fare giustizia ai colleghi e ai magistrati caduti. Tanti, troppi, Come Terranova, Costa, Dalla Chiesa e poi Rocco Chinnici. La sua storia, raccontata nel libro autobiografico di sua figlia Caterina, è oggi intensamente ricostruita e rappresentata nel film che ha per titolo il nome del magistrato, prodotto da Luca Barbareschi in collaborazione con Rai Fiction, dove la figura del giudice palermitano è onorata dalla straordinaria identificazione, nel carattere e nella misurata gestualità, di Sergio Castellitto. Tini Andreatta la definisce come una storia della doppia paternità: quella istituzionale, in cui per la prima volta si mettono insieme, in “pool”, risorse, professionalità e conoscenze per fare fronte e sinergia contro un mortale, invincibile nemico comune.

L’altra, invece, ne racconta il volto assolutamente umano di Chinnici, catturato ma mai imprigionato nelle mura della casa familiare, con la moglie e i tre figli, e un’appendice verso il mare, in una bellissima casa dove il giudice lavorava con le mani la sua terra, per far crescere roseti e innaffiare orti. Con la stessa leggerezza con cui, dopo la morte drammatica per overdose da eroina della più cara amica delle figlia Caterina, ammaestra i più giovani a temere e a combattere con tutte le loro forze interiori il Male, perché di gioventù brilla la speranza di un futuro migliore per una terra bellissima e così tanto velenosa per i suoi migliori, ai quali dà, quando va bene, l’esilio o la morte nel peggiore dei casi. Una regia che scava michelangiolescamente nei volti della paura, della fermezza, del terrore, del lutto e della resistenza a tutti i costi. Dove le scelte dure, dolorose e foriere di lutti terribili non sono mai rimandate: al massimo restano in gestazione un giorno solare. Piuttosto, una notte: quelle albe così care e piene di fruttuoso lavoro, per Chinnici. Quei caffè portati a letto per Caterina che dorme, ma si deve alzare, che non deve tornare mai tardi, oltre le 23, perché fuori le notti per gli onesti sono tutte da lupi.

Allora, ogni giovane uomo che attraversa o entra nella vita di lei può essere un cavallo di Troia, pronto alla delazione e al ricatto, perché l’aria mafiosa ha molecole invisibili, portatrici di un virus cerebrale che acceca quando in realtà si vede benissimo ciò che accade; che fa perdere la lingua, perché un gesto vale spesso una vita, in terra di Sicilia. Qualcuno che la toglie con un cenno del capo, tradotto in quintali di tritolo per chi si mette di traverso, non cede e non collude. Poi, la selezione degli eroi (Borsellino e Falcone in testa a tutti), la coorte di uomini disarmati che deve, può portare alla disgregazione delle falangi armate di fucili da guerra, quelli che penetrano le blindate e frantumano come gesso le ossa. La mafia dei colletti bianchi, dei flussi bancari che riciclano immensi capitali illeciti e insanguinati, provenienti dal traffico mondiale di eroina, annegati in migliaia di conti di comodo e di prestanome nullatenenti. Poi, però si sale. Si capisce tutti insieme il terzo livello. Quelli che giocano con i picciotti burattini. Che ostentano in segreto il loro pollice verso, che nemmeno i sicari seriali conoscono. Poi, l’amore, che è ovunque e disperato. Film bellissimo, da non perdere.

Aggiornato il 17 gennaio 2018 alle ore 08:15