Il “Sogno” di Bruno s’avvera all’Eliseo

A chi appartiene la Notte? E chi sono i padroni del bosco nell’oscurità? Come in tutte le fiabe che si rispettino, elfi e folletti sono i signori della magia e dell’incantesimo, grazie al quale ogni pensiero umano, per quanto astruso esso sia, avvera i suoi sogni diurni o, al contrario, vede punite e imprigionate per effetto del prodigio le sue aspirazioni più ignobili e ripugnanti. Reinterpretando la commedia shakespeariana, fino al 28 gennaio al Teatro Eliseo di Roma va in scena una versione fantasmatica del “Sogno di una notte di mezza estate”, per la regia di Massimiliano Bruno e l’interpretazione, tra gli altri, di Giorgio Pasotti (Teseo, Oberon), Stefano Fresi (Bottom, Priamo), Violante Placido (Titania, Ippolita) e Paolo Ruffini (Puck il Folletto del Bosco). Spettacolo che riempie il cielo di sera come una sagra di fuochi d’artificio, incaricata di violare la notte per spargere pochi attimi di variopinta felicità con i suoi origami cromatici e la forza ascendente della sua generosa dose di polvere pirica. Così, il palcoscenico si fa anonimo sostegno di oggetti fantastici: macchine a forma di conchiglia per ospitare la Regina delle Fate; un carro enorme di legno, dalle ruote pesanti, per dare una precaria casa nel bosco ai suoi invisibili abitanti e alla compagnia di guitti, le cui gesta disarticolate e il linguaggio annodato costituiscono una sana autoironia sul mestiere dell’attore.

In particolare, in un’epoca di sfrenato puritanesimo, le parti di donna costringevano gli attori uomini a indossare le gonne, imitando con poca grazia le voci bianche dei castrati, smentiti dalle barbe sempre troppo evidenti. Finti muri umani che non parlano ma protestano veementemente, soprattutto nei confronti di un Priamo decisamente big size, sempre a caccia di un cinghiale arrosto, come Obelix. Per non parlare di una Tisbe, l’innamorata infelice del re troiano, più zanzara saltellante che bellezza troiana, costretta per un Bottom ritardato a scrivere il suo nome a caratteri rossi sul mantello bianco candido, addentato da un leone malissimo in arnese che non ne vuole proprio sapere di imparare a memoria la sua parte. Per la massima, costante disperazione del capocomico che deve dare da vivere a una compagnia di pance vuote e di talenti improbabili. Davvero pregevoli e interessanti le soluzioni dei costumisti, come il completo assurdo di Puck, sorta di canguro bipede, più bradipo che saltatore, vestito come uno Charlot con un grande marsupio sul davanti, da cui fuoriesce un enorme contenitore conico di carta per bibite, munito dell’inseparabile cannuccia.

Così, grazie a Puck e alla sua imperdonabile approssimazione, chi ama si trova improvvisamente a odiare l’amata e viceversa, con scene da sabba infernale perché le due coppie di fidanzati si abbandonano a una ordalia di parole, gesti, minacce, rincorse e pause stremate di sonno alla ricerca dei rivali. Gesti e invettive i loro che fanno da contraltare umano un po’ troppo violento e virulento ai delicati balletti delle fate, sempre piacevolmente spiritosi alla Oskar Schlemmer, il grande coreografo sperimentale dei tempi gloriosi del Bauhaus. Ma anche nel regno incantato le cose non vanno come dovrebbero. Esattamente a quanto accade nell’Olimpo mitologico, dove Zeus si innamora di una ninfa reticente, che viene punita facendola invaghire di un repellente centauro o, come nel caso del Sogno, di Bottom tramutato in asino per l’occasione. Il lieto fine, però, è assicurato dalla saggezza del regnante terreno e dal suo duale, Oberon, il Signore del bosco.

(*) Per info, prenotazioni e biglietti: Teatro Eliseo

Aggiornato il 18 gennaio 2018 alle ore 08:22