L'eredità di Friedrich A. von Hayek /3

martedì 6 febbraio 2018


Pubblichiamo il testo integrale della relazione tenuta dal professor Lorenzo Infantino (titolare della cattedra di Metodologia delle Scienze Sociali all’Università Luiss Guido Carli di Roma) al Festival della Cultura della Libertà che si è tenuto lo scorso 28 gennaio a Piacenza. Oggi pubblichiamo la terza puntata (di quattro). Clicca qui per leggere la prima e la seconda puntata.

Bene ha fatto pertanto Hayek a rileggere le pagine di Senofonte e di Aristotele. Egli non ha recuperato la definizione di “oclocrazia” di Polibio. Ma il quadro è nitido. Ecco perché desta stupore l’incapacità della scienza politica di gettare una luce chiarificatrice sulla deriva prodotta dalla manomissione del “governo della legge”. In proposito, ci sarebbe molto da dire. Hayek ha parlato di «realismo cinico», volendosi riferire all’atteggiamento di molti «scienziati politici contemporanei, che considerano la democrazia unicamente come una forma di quella inevitabile lotta in cui si decide “chi avrà qualcosa, quando e come”». A essere chiamato in causa, è qui Harold D. Lasswell con il suo Who gets What, When, How. Ma la critica si estende a tutti coloro che esplicitamente ritengono che la democrazia sia un regime politico in cui non si pongono limiti alla sfera d’intervento del potere pubblico o a quanti giudicano le costituzioni «qualcosa di antiquato che non deve trovare posto nella concezione moderna dello Stato».

Si capiscono quindi le ragioni per le quali Hayek ha scritto: «Sebbene creda fermamente che, se vogliamo la pace e la libertà, l’attività di governo debba svolgersi secondo princìpi approvati dalla maggioranza del popolo, devo francamente ammettere che, se democrazia diviene sinonimo di governo della maggioranza dotato di potere illimitato, io non sono democratico, considero un tale governo pernicioso e non credo che possa funzionare nel lungo periodo». Come dire che, se volta le spalle al “governo della legge” e alla limitazione del potere, la democrazia non ha futuro. Diviene una «democrazia morbosa», di fronte a cui ci saranno dei leader politici che ci proporranno – era questa la preoccupazione di Hayek – di uscire con «mezzi disperati».

Anche se non sempre è stato posto nella necessaria evidenza, Hayek ha individuato nel potere monopolistico di emettere moneta uno dei principali strumenti della «democrazia illimitata». Non a caso lo studioso austriaco ha scritto: «La moderna espansione dello Stato è stata largamente agevolata dalla possibilità di coprire i deficit emettendo moneta: generalmente utilizzando il pretesto che ciò sarebbe servito ad accrescere l’occupazione». Ma veniamo più direttamente al problema.
Come strenuo difensore della teoria delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali, Hayek ha condiviso con Carl Menger, il fondatore della Scuola austriaca di economia, l’idea che il denaro sia nato dalla cooperazione volontaria, senza la previa programmazione di una mente ordinatrice. Ossia: il denaro è una di quelle “istituzioni spontanee”, di cui nessun uomo in particolare può attribuirsi la paternità. Menger ha riconosciuto che la «sanzione» da parte della pubblica autorità ne ha migliorato la condizione. Ma resta il fatto che il denaro è qualcosa che appartiene alla cooperazione sociale volontaria, da cui è stato prodotto. Ne consegue che, se viene trasformato in una creazione della politica, perde il suo originario carattere, che dipende (non bisogna dimenticarlo) dai vantaggi e dall’accettazione liberamente decisi dagli attori sociali.

Purtroppo, a partire dal primo Novecento, si è fatta strada la teoria statalista della moneta, sostenuta in particolare da Georg Friedrich Knapp. Dell’opera di Knapp (Staatliche Theorie des Geldes), Menger ha detto: «È lo sviluppo coerente delle Polizeiwissenschaften prussiane. Quale giudizio si può dare di un popolo la cui élite, dopo duecento anni di economia politica, trova da estasiarsi, quasi fosse una sublime rivelazione, di fronte a una simile assurdità, che poi non è neanche nuova?». E tuttavia la cosa più inquietante è che l’opera di Knapp è stata tradotta in inglese su indicazione di John Maynard Keynes, la cui teoria è debitrice della dottrina statalista. Il keynesiano Treatise on Money si apre infatti con un un aperto avallo a Knapp, di cui si dice che «accetta come “moneta” – e giustamente a mio avviso – tutto ciò che lo Stato s’impegni ad accettare in pagamento, sia o meno dichiarato a corso legale fra i privati». Keynes ha inoltre affermato: «Lo Stato […] entra anzitutto in gioco come l’autorità legale che obbliga al pagamento della cosa corrispondente al nome o alla descrizione di cui al contratto. Ma entra doppiamente in gioco quando inoltre avoca a sé il diritto di determinare e dichiarare quale cosa corrisponda al nome e di variare la sua dichiarazione di tempo in tempo; quando, cioè avoca a sé il diritto di riformare il dizionario. Questo diritto è reclamato da tutti gli stati moderni, così come è stato per quattromila anni almeno. Con il raggiungimento di questo stadio nell’evoluzione della moneta coincide la piena realizzazione del cartalismo di Knapp; della dottrina, cioè, secondo cui la moneta è peculiarmente una creazione dello Stato».

La contrapposizione fra Menger e Hayek da una parte e Knapp e Keynes dall’altra non potrebbe essere più netta. Per i primi, il denaro è uno strumento creato dalla cooperazione sociale volontaria; per Knapp e Keynes è un mero mezzo di pagamento imposto dallo Stato. Bisogna però chiarire che Hayek non ha inteso «proibire allo Stato di fare alcunché»; ha semplicemente fatto notare che lo Stato non può proibire agli «altri di fare cose che essi potrebbero fare meglio». E ha precisato: «Non dubito che l’impresa privata, se non le fosse stato impedito dal governo, da molto tempo avrebbe potuto e voluto offrire al pubblico la possibilità di scegliere tra più valute. E quelle, fra tali valute, che fossero prevalse nella competizione sarebbero state essenzialmente stabili e avrebbero impedito sia l’eccessiva stimolazione degli investimenti, sia i conseguenti periodi di contrazione».
C’è qui l’idea che la concorrenza riesce a soddisfare meglio i bisogni dei cittadini, perché essa è un «procedimento di scoperta»: mette continuamente a confronto le vecchie con le nuove soluzioni. Il che è precisamente ciò che è reso impossibile dal monopolio, perché non mobilita le conoscenze disperse all’interno della società. «Un singolo organo statale, in posizione di monopolio, non è in grado di acquisire le informazioni necessarie a regolare l’offerta di moneta». «Nessuna autorità può accertare in anticipo “la quantità ottima di moneta”, solo il mercato può scoprirlo». E gli errori della politica monetaria si pagano con il susseguirsi di periodi di boom e di depressione. Ci sono cioè delle cause monetarie del ciclo economico.

La “denazionalizzazione della moneta” non è quindi qualcosa di sovrapposto alla teoria economica austriaca. È semplicemente la coerente conclusione a cui giunge chiunque si renda conto dell’impossibilità di determinare «costruttivisticamente» la “quantità ottima di moneta”. Il che è quanto tutti gli esponenti della Scuola austriaca di economia hanno sostenuto. Hayek ha portato alle sue logiche conclusioni un’idea, quella della concorrenza monetaria, su cui aveva particolarmente insistito Menger. E ci ha lasciato anche un’impareggiabile lezione metodologica.

(3/continua)


di Lorenzo Infantino