Al Teatro di Roma un classico di Pirandello

Dirige Luca De Fusco. Ma, in realtà, lui e Pirandello sono solo le mani che tracciano le righe di una possibile biografia di S. M. “Il Dramma”, dalla cui testa olimpica partoriscono e vivono di vita totalmente autonoma i “Personaggi”. Quelli cioè in cerca “d’Autore”, come i sei che appaiono come ombre cinesi sul fondale Noiré (Ludwig, filosofo ottocentesco del linguaggio) del palcoscenico del Teatro Argentina di Roma, per andare in scena fino al 18 febbraio, librandosi sull’etere dei filosofi classici. Un capolavoro, certo. In fondo, è l’eterno dramma paradossale dell’uovo e della gallina (nel nostro caso “Il Personaggio” e “L’Autore”), nella disputa infinita di chi, in realtà, sia nato “prima”. Pirandello ci risponde che sono entrambi perfettamente formati e del tutto autonomi. Così, basta al “Padre” appendere sciarpe e cappelli a un improvvisato attaccapanni, per evocare l’apparizione di una orribile Madame prosseneta del bordello da cui muove l’intero dramma.

Una mano oscura lo porta lì dove si prostituisce la figliastra, ma l’incesto è appena sfiorato, fermato dall’urlo disumano della “Madre”. Pirandello per creare la definitiva cesura tra autore e personaggio sovrappone teatro reale e immaginario, in una sorta di scrittura di complessità due (come quei software che creano in automatico altri software). Niente di più geniale e contemporaneo. La cosa strabiliante è vedere come in questa sovrapposizione, resa magistralmente dalla compagnia dell’ottimo Eros Pagni, il livello più alto, quello dell’Immaginario, sia incomparabile più potente ed evocativo dello scarso sentimento reale di attori mestieranti, che si rendono semplicemente ridicoli tentando di sostituirsi alla forza prorompente dell’arte dal vivo, in cui il Personaggio si racconta in prima persona.

E ancora più forti, penetranti e furiosi sono i silenzi dei due bambini più piccoli, la femminuccia e il maschio mezzano, che trascinano con furia drammatica lo spettatore nella vasca dove termina il futuro di una generazione di derelitti: quelli senza più padre e trattati come bastardi dall’unico figlio legittimo, il maggiore di loro. Ed è una Gaia Aprea, nel ruolo della figlia, ad avvolgere il pubblico attonito nella sua sciarpa rosso sangue del dolore che più non passa, quello che sta nelle viscere e nell’anima, ripercuotendosi dall’una alle altre, con un tonfo, un moto armonico che toglie il fiato e avvelena l’aria imbibendola di parole furiose. E il direttore (un bravissimo Paolo Serra), colui che ha il potere di far esprimere o uccidere in culla il Personaggio, si vede spodestato, svuotato della sua autorità. Perché nessuno può dirigere chi è nato preformato e duplicherà il se stesso originale infinite volte, senza sorta alcuna di sbavature o correzioni.

Mentre l’Attore, lui, è sempre transeunte: cambiano la sua voce, la taglia, l’età posseduta, il talento. E nessuna replica sarà mai uguale a quella precedente. Il Personaggio no: lui gode del privilegio dell’Immortalità.

(*) Per informazioni, prenotazioni e biglietti: Teatro di Roma

Aggiornato il 08 febbraio 2018 alle ore 08:18