“Rosalyn”, alla ricerca del fantasma interiore

sabato 24 febbraio 2018


Cadere nel vuoto della memoria. Precipitare e trovarsi accanto un angelo di cui non sai istante dopo istante se ti stia sostenendo o, al contrario, accelerando la caduta. Lui, con il volto di giovane donna, una sorta di protesi mentale degna di accurate cure psicoanalitiche. Fotogramma dopo fotogramma registri ogni micron della tua discesa e gli istanti sembrano lentissimi, il tempo finale non arrivare mai con essi. Rosalyn è la storia di un miraggio, di un enigma insolubile dotato di apparenza cangiante, inafferrabile a causa della sua trasparenza. Quindi che cosa accade in Rosalyn di Edoardo Erba, bellissimo dialogo a due, condotto da due grandi attrici dello spessore di Marina Massironi e Alessandra Faiella, in scena alla Sala Umberto di Roma fino all’11 marzo, per la regia di Serena Sinigaglia? Capita di assistere a uno sgambetto tra figure o a un gambetto di re, dove il sovrano se la cava con una manovra ardita: ecco ciò che scorre sulla scena, lungo un pavimento inclinato costruito su di un telaio primitivo di grandi conci di pietra sconnessi le cui smagliature sono profonde come forre.

L’ideale per simulare i buchi della Mente: recessi in cui lo spirito assassino animale si fonde con le costruzioni di un’intelligenza schizoide, che proietta ombre tutto intorno a se ma le materializza come creature, con le quali dialoga e, perfino, si esercita godendo di un piacere sessuale proibito. Classica questione mai troppo esplorata di un “delitto-non-delitto”, quando il vero colpevole è in realtà il tuo Doppio. Rosalyn è l’eterno confronto tra spirito selvaggio e logos civilizzato in cui la matrice culturale di Esther domina quella rugosa e contadina di una Rosalyn materializzata come donna delle pulizie, che scopre la grande scrittrice e ne utilizza l’opera ultima come sorgente di conoscenza, scambiando il suo affetto per l’attenzione dell’altra. Una “quisque de populo” che si fa cicerone della senatrice, guidandola nei paesaggi naturali della Toronto selvaggia, dalle cascate del Niagara ai boschi circostanti. Ed è il gineceo, lo spirito confidenziale e uterino che si risveglia quando più versioni del femmineo si ritrovano a contatto a innescare la scintilla confidenziale, dell’intimo recluso altrove indicibile.

Esther usa una seduta precaria per un’autoanalisi che la conduce lentamente ma inesorabilmente a scoprire il suo fantasma interiore, quello pulsionale che la comanda e al quale ha cercato di ribellarsi con tutte le sue forze, imprigionandolo nella sua scrittura da romanzo rosa noir. Per legge di contrappasso, sarà proprio lo strumento anodino di quell’arte sua così ben coltivata e remunerata, una penna dal pennino d’oro, come quello di un proiettile magico, a scrivere con la mano automatica della medium il suo destino finale, sempre in compagnia di Rosalyn il suo angelo dall’aspetto cangiante, travestito nei modi che meno ti aspetti. Fino all’ultimo respiro la corsa non ha fine né vincitore: l’intelletto e le sue figurazioni fanno a gara a sfuggire al rigore dell’arbitro, quello che deve sanzionare il fallo di gioco, anche e soprattutto nel circo dell’amore, dove la vittima diviene ben presto il carnefice. Un gioco perverso da portiere di notte: lui che picchia duro, lei che non reagisce ma che, anzi, reiterando se stessa e offrendosi al martirio, rende l’altro sempre più arrogante e dispotico. Fino alla rottura di questo equilibrio sadomaso, allorché l’istinto di sopravvivenza si ribella a qualsiasi patto di auto costrizione.


di Maurizio Bonanni