La varietà dell’esistenza umana, che non possiamo interamente abbracciare e forse neanche contemplare, ci viene spesso incontro nei romanzi, dove incontriamo i personaggi più disparati, fantasiosi e talvolta inverosimili. Nell’opera di Alessandra Zenarola, “Il posto più freddo del mondo” (Solfanelli, 2017), la protagonista, Angela Martinez, è un classico personaggio anti-eroe che rientra nella lunga serie di individui sfiancati da questo mondo di opacità. Angela ha una vita tutta sua, quasi autoreferenziale, con un lavoro che le piace ma che svolge senza ambizioni. È una ragazza crepuscolare, come il suo gatto, che porta il nome di un fotografo giapponese minimalista; e la fotografia è appunto il suo lavoro, che porta avanti nello studio “Il Visionario” con il suo collega Nasveri, un uomo ancora più marginalizzato di lei.

Non è solo lavoro: la sua Nikon è la compagna fedele con cui fotografa soggetti poco glamour, quasi a voler donare oro a una realtà priva di oro e anche di argento. Angela predilige infatti il degrado, gli spazi svuotati dalla presenza umana ma che recano ancora i resti lasciati sulla scena, come ad esempio le feste terminate, gli sfasciacarrozze, i cimiteri. È una sensibilità malinconica. È una non-allineata, fuori dai conformismi e dai riti condivisi da tutti, capace di passare il Natale da sola, senza concessione ai buonismi – si basta a se stessa. Ama il maltempo, i tempi morti incuneati nel tedio delle giornate, la decomposizione, tutto ciò che è alla fine. Infatti, anche nel suo privato, ha messo fine ad una storia che poteva anche diventare seria; ha in corso una relazione poco coinvolgente con “il francese”, un tipo un po’ rude che inizia a perseguitarla perché lei vorrebbe troncare, e dunque lo evita. Insomma, Angela è attratta dalla precarietà, la divinità negativa del nostro tempo, non dà alla sua vita una forma definita, è irrisolta su tutto, quasi si crogiola in questa incertezza. Probabilmente sa che conviene stare in una situazione simile, adattarsi all’instabilità visto che questa è sparsa a pieni mani nel mondo, che c’è un enorme spread tra le aspettative e la realtà delle nostre esistenze. Certamente non è una donna mondana, Angela, a cui del resto da ragazza piacevano Luigi Tenco e Sylvia Plath. L’unica sua amica è Lam, una ragazza vietnamita che gestisce un ristorante un po’ bizzarro. Ad un funerale, neanche a dirlo, conosce un uomo, che potrebbe smussare qualche sua asprezza. Ma lei niente. Perché Angela è distratta da pensieri, da qualcosa che ha dentro, da mille interrogativi come, ad esempio, se il padre Ferruccio, ricoverato in una casa di riposo, sia davvero suo padre. La madre Susanna, invece, è una donna vulcanica che vive con il suo ennesimo amante in Salento. Quando si rende necessaria per questioni burocratiche l’esumazione della defunta nonna Vilma nel paesino di montagna in cui è sepolta, tocca ad Angela l’incombenza che la madre evita accuratamente. Così Angela parte in corriera per raggiungere il paesino della sua infanzia, tra la neve e il freddo che lei comunque ama, come ama i tempi morti e gli incontri casuali dei tediosi viaggi in pullman, con la sua Nikon per fermare gli attimi di quella specie di recherche che sta conducendo, forse nel tentativo di scoprire qualcosa sul passato.

C’è però nel romanzo un nodo non ancora risolto che attende la protagonista: purtroppo, è la sua volta di doversi confrontare con quello che è un problema quotidiano del nostro tempo, quello del drammatico sbilanciamento del rapporto uomo-donna, rapporto che, essendo in una fase ancora transitoria, liquida, instabile, causa, soprattutto nel maschio, atteggiamenti di diffidenza, paura e frustrazione che sfociano in atti violenti, di cui troppo spesso leggiamo sui giornali la cronaca quasi quotidiana. Angela rischierà di partire per un viaggio ben più tragico, nel freddo di un luogo gelido di cui la sua città, Udine. è solo prefigurazione e anagogia.

Letterariamente, sembra che la moda di Ossian, apparsa nel Settecento inglese come mania dei sepolcri e delle nebbie gotiche ad opera di James Macpherson, sia declinata al presente nel romanzo di Alessandra Zenarola. Un ossianismo certamente adattato al cinismo dei giorni nostri, che rende Angela particolare nella sua eccentricità, così assorta in sé, mentre si aggira nella sua Udine (città anche dell’autrice), descritta come poco luminosa, opaca e gelida di neve, senz’altro un rifugio per il desiderio di buio e oscurità della protagonista. C’è qualcosa di indefinito in questo romanzo, il quinto dell’autrice, che unisce il massimo del realismo, anzi di un quotidiano iperrealista, ad un’atmosfera ambigua, inconclusa, avvolta com’è in una dimensione onirico-decadente, in cui il gelo climatico rallenta movimenti e pensieri. Lo stile della Zenarola è secco, a volte cinico, pieno di ironia ma anche di una reticenza minimalista che lascia intravedere con pudore sentimenti, stati d’animo, pensieri.

Pare che una nebbia sottile sia sparsa dappertutto in questo romanzo, sulle cose, dentro e fuori le persone. Mirabili sono i personaggi minori, tratteggiati nella loro pochezza esistenziale: come la signora Polano, emblema e archetipo di tutte le vicine di casa acide e ficcanaso, in cui siamo sicuri di essere inciampati almeno una volta nella vita. Un bel romanzo che grazie all’abilità dell’autrice si legge con divertimento e con una sana dose di compassione, forse le migliori modalità con cui affrontare la vita di tutti i giorni.

Aggiornato il 12 marzo 2018 alle ore 14:25