“Disgraced” all’India

“Non disperdere il seme!”. Comandamento o anatema, nel mondo globale senza mura della libertà sessuale? L’Occidente appare così come un gigantesco teatro di maschere greche, dove ogni facciata d’oro nasconde dietro il suo paravento le statuine dei Penati e dei ricordi ancestrali collegati ai loro miti. Complicato? Mai quanto lo spettacolo “Disgraced” di Ayad Akhtar che va in scena al Teatro India di Roma fino al 18 marzo, per la regia di Jacopo Gassmann. Una giostra di quattro amici, due donne e due uomini e di un giovane nipote, fedele musulmano sospettato di simpatie jihadiste. Le prime battute restituiscono l’immagine idilliaca di un’elegante e raffinata coppia di newyorkesi: lui, Amir, musulmano agnostico, pakistano ma indiano, avvocato di successo che si occupa di fusioni aziendali; lei, Emily, una pittrice votata al successo con il sogno di esibirsi in una personale presso una famosa casa d’arte. I simboli del piacere borghese sono tutti squadernati in primo piano: una bella casa; preziosi soprammobili; arredamento da rivista d’architettura d’interni di lusso. Amir che posa in boxer neri, giacca e cravatta per essere ritratto dalla moglie che tenta invano di imitare il dipinto di un pittore famoso.

Si fissa su di una tela ciò che non esiste oltre l’apparenza, come l’amore coniugale di lei che insegue e lui che rifugge; laddove il tradimento è l’oggetto misterioso che, pur non invitato, si materializza all’improvviso nelle spoglie dell’ospite più gradito: il proprietario della casa d’arte, Isaac, ebreo come sua moglie Jory. Una cena tra due coppie di amici che, partendo dal primo grano di una frase innocente, orazione dopo orazione procedono inesorabilmente verso quei conflitti ancestrali in cui due grandi religioni del Libro tornano a odiarsi, ripetendo un karma che si protrae da millenni. L’uno che gode delle pene inflitte all’altro, quando l’Alto Medioevo dell’Islam fondamentalista colpisce al cuore il Grande Satana occidentale con l’attentato alle Torri Gemelle del 2001. Perché la laicizzazione, l’integrazione trentennale dell’uno e dell’altro nella società occidentale americana, ricca e opulenta, non è che una patina di vernice, pronta a fondersi non appena il calor bianco dell’ira torna a manifestarsi. Così l’ebreo è il predatore, lo speculatore finanziario che si vendica con il denaro del potere profano, quello dei senza dio e popolo, perché non assistiti da una fede incrollabile nei suoi dogmi e nelle sue certezze.

Così, è Amir a riscoprire ciò che non aveva mai dimenticato, ricordandosi dello sputo in viso da parte di sua madre quando aveva saputo che quel figlio adolescente e ingenuo aveva osato dare confidenza a una compagna ebrea. Poi, quel Corano dai passi congelati nel ricordo ma mai dimenticati, che l’ira improvvisa verso gli ebrei, colpevoli di aver scambiato faustianamente la sua anima con un’illusione di ricchezza, fa riaffiorare come lo scheletro del Similaun, sepolto nel ghiacciaio millenario delle Alpi Venoste. Lì, in quei versetti il maschio trionfa e domina la donna, violando il mito della parità dei sessi così laicamente sacro nella nuova culla dell’Occidente che per Amir, all’improvviso, si fa irta di chiodi come il letto di un fachiro. Lì, il tradimento della donna è punito con la lapidazione e la messa a morte e sono i parenti più stretti a scagliare la prima pietra. E sarà questo ritorno irrefrenabile e impetuoso alle origini dell’insegnamento religioso che, oltre a distruggere un’amicizia profonda, farà implodere quella casa borghese benpensante. Perché, in fondo, anche se avvelenate, le proprie radici non si possono mai recidere del tutto.

(*) Per info, prenotazioni e biglietti: Teatro India

Aggiornato il 12 marzo 2018 alle ore 14:15