La bastarda di Istanbul

Il solito dilemma. Come se la cava una brillante compagnia di attrici, diretta da Angelo Savelli e in scena alla Sala Umberto di Roma fino al 25 marzo, anima e mente della versione teatrale e relativa rappresentazione dal vivo del bellissimo romanzo omonimo della scrittrice turca Elif Şafak? Per esempio, utilizzando l’ingrediente raro della profonda umanità comunicativa dell’attrice preferita di Ferzan Özpetek, una Serra Yilmaz che si presenta in scena con i capelli corti colorati di un verde elettrico. Una prima scossa estetica che, poi, con la sua inconfondibile lentezza, nel suo scandire con precisione matematica le parole e le frasi in italiano perfetto, venato da quella sua pronuncia inconfondibile, la vede condurre in porto le ragioni di un dramma familiare spiegandolo e decostruendo, come una antifatina, le bugie del Pinocchio maschilista turco. Tutto nella pièce è viaggio: uno scorrere degli eventi ineluttabili della grande Storia, come quelli del genocidio di un popolo armeno deradicato, perseguitato, annientato e che nel caso specifico ci parla attraverso la sua diaspora americana.

Il dilemma della restituzione degli scenari così accuratamente disegnati ed elaborati nel romanzo della Yilmaz viene risolto con brillanti invenzioni scenografiche, come pareti verticali rotanti che scendono lentamente ai due lati per ospitare altrettanti schermi, così come fa in grande nei momenti topici la parete di fondo, istoriata da esterni urbani della incomparabile Istanbul, o da interni che vanno dalle tappezzerie all’intimità di un bistrot frequentato da intellettuali turchi. Il grumo umano e sentimentale del racconto si rivela denso di odi, vacuità e profondità abissali che come una sinusoide alternata ci presenta senza infingimenti i suoi picchi e discese sempre e comunque laceranti.

Sono sette personaggi femminili a scuotere metaforicamente ed evangelicamente la polvere dai loro calzari: quattro sorelle, tutte senza marito e senza alcuna voglia e speranza di averne uno, assetate del loro solipsismo che impregna della missione del nubilato ogni azione, discorso o ragionamento che si fa attorno alla mensa collettiva. Forse perché, guarda caso, gli uomini della famiglia salutano per sempre le loro donne subito dopo aver raggiunto il traguardo dei quaranta anni.

A guardia del gregge, un fratello smidollato e vittima del gineceo familiare, impotente di fronte al giganteggiare del femmineo e del materno, circondato e accerchiato senza speranza da una madre anziana capofamiglia, alla quale si affianca una “Memè” ultranovantenne che ci appare per un solo attimo, muta e priva di forze. Poi, la nipote americana figlia adottiva di una donna ciccionissima che l’unico zio maschio sposerà per non disilludere il suo karma, che lo vuole invischiato in un rapporto masochista con un’altra feroce predatrice di mascolinità che, con la sua finta voce da chioccia, ne fa uno schiavo servile ai suoi ordini e capricci.

Poi, infine, la “Bastarda”, figlia della sorella più piccola, la più avvenente, dissacrante con la sua una sensualità prorompente, provocatoria e volutamente al di sopra delle righe (restituita sulla scena da una splendida Valentina Chico) che porta sulle sue sole spalle la pesante chiocciola del dramma. Yilmaz vi farà da Dante e da Caronte portandovi diritti alla verità.

Aggiornato il 17 marzo 2018 alle ore 11:15