Dorfles e il kitsch

Gillo Dorfles, che ha dedicato grande riflessione al kitsch e del quale ammiriamo le intuizioni di fine storico, indica con tale termine un tipo di produzione che fa riferimento a regole del gusto incerte. Tale definizione trova le sue origini semantiche negli studi di alcuni filologi germanisti, secondo i quali il termine kitsch deriva dall’inglese sketch e/o da quello tedesco etwasverkitschen in quattro possibili interpretazioni. La prima risale alla seconda metà dell’Ottocento e in particolare alla richiesta d’acquisto di schizzi da parte di turisti americani (sketch); la seconda, dal verbo kitschen, che nel dialetto meklemburghese significa “raccogliere fango sulla strada”, la terza “truccare mobili per farli apparire antichi”; infine, la quarta, sempre in riferimento al verbo verkitschen, identifica il termine con l’espressione “vendere a poco prezzo” (Ludwig Giez, 1990).

Il suo impiego corrente consente di nominare oggetti che manifestano anomalie tali da renderli scarsamente armoniosi. Gli esempi citati da Dorfles nella sua Antologia del cattivo gusto sono innumerevoli e, sotto questo profilo, è condivisibile la sua interpretazione soprattutto quando afferma che nella produzione del kitsch è possibile rintracciare un ricordo opaco, sentimentale e ambiguo per l’originale da cui trae ispirazione.

Il kitsch non va quindi inteso come una produzione minore o falsa: ciò che lo contraddistingue è un’azione parassitaria che affonda le sue radici in esperienze culturali consolidate, attingendo da esse spunti per riadattarle alla mediocrità dei gusti del pubblico, predigerendo l’arte per lo spettatore, risparmiandogli ogni sforzo, fornendogli una sorta di sintesi dei piaceri dell’arte, aggirando, così, le inevitabili difficoltà culturali dell’interpretazione.

Tuttavia, a nostro avviso, va osservato che certamente il kitsch può essere inteso come una manifestazione di cattivo gusto, ma come tante altre che incontriamo nella vita quotidiana: una vecchia signora eccessivamente truccata può urtare la nostra sensibilità estetica come il kitsch, anche se non propriamente. Al contrario, è kitsch un robot antropomorfo di ultima generazione, grazie alle sue forme esteticamente orientate ad ottenere una marcata conformità al modello naturale. Il suo antropomorfismo è una conferma, una sorta di resa incondizionata della scienza e della tecnologia ad un uomo che continua a dare per scontato il mondo e i suoi oggetti, incluso se stesso, dando luogo ad apparenze e allusioni senz’anima.

Il cattivo gusto può essere inteso, dunque, come una categoria più vasta nella quale è possibile fare rientrare anche il kitsch, il quale, però, richiede criteri di identificazione più definiti. Si può perciò proporre un’ulteriore lettura del fenomeno, nella convinzione che la categoria del kitsch non costituisca un tutto unitario il cui perseguimento segua necessariamente un’unica via definibile solo in termini estetici.

Per questo, se l’interpretazione classica è di tipo valutativo e lo fa coincidere con un’azione compositiva caratterizzata da una sorta di “gusto minore”, è possibile proporre una visione “genetica” del kitsch, connessa alla più generale tradizione che si può definire come riproduzione o replica della realtà. A nostro avviso il kitsch è la dimostrazione nei fatti del costitutivo e irrisolvibile limite che caratterizza la condizione umana. Da un lato la tendenza ostinata alla replica, una tendenza riscontrabile con diversi gradi di intensità in tutte le epoche, a prescindere da eventuali prescrizioni favorevoli o avverse al naturalismo sancito dalla cultura ufficiale. Dall’altro, l’inevitabile carattere kitsch al quale, di fatto, ogni tentativo di replica finisce per approdare.

Non esistono culture senza kitsch, tuttavia possiamo osservare che esso può essere maggiormente presente nei periodi nei quali i valori portanti cominciano a perdere terreno, piuttosto che in quelli in cui nuovi valori si affacciano sullo scenario culturale. Nel periodo fascista, ad esempio, la produzione di kitsch si palesò soprattutto nel periodo in cui il potere di Benito Mussolini si fece più fragile e non negli anni in cui si avvertiva grande entusiasmo per il mito della nuova Italia romana imperiale. Insomma, è evidente che anche al kitsch, consentendo una sorta di riformulazione teatralizzata di una pseudo cultura popolare, venne affidato l’estremo tentativo di contrastare l’ormai inarrestabile crisi del Partito Nazionale Fascista. Il kitsch potrebbe allora costituirsi come una sorta di indicatore, un interessante segnale dello stato di un sistema valoriale in crisi. Del resto, è proprio nei momenti di fragilità culturale che si riduce lo spazio per il nuovo, rispetto a ciò che può essere ritenuto una sorta di confortante conferma e di stabilità culturale.

Per portare due esempi tipici: i falsi d’autore o le antiche sculture romane possono essere giudicate brutte o belle ma non kitsch in quanto il loro statuto di copia coinvolge un solo livello di osservazione coincidente, nei casi citati, con la forma esteriore. Né false né tantomeno kitsch sono da ritenersi le creazioni di Constant Roux e René Binet, create sulla scia dei ricordi lasciati dagli erbari e dai bestiari cinquecenteschi nonché palesemente ispirate alle affascinanti tavole delle Kunstformendernatur dello zoologo Ernst Haeckel. Dunque, Binet e Roux, rifiutando l’imitazione fine a se stessa, si concentrarono ed esercitarono le loro capacità trasfigurative sulla mutevole apparenza dinamica di meduse tentacolari fluttuanti ed evanescenti, radiolari dalla complessa architettura, porose spugne. Insomma, la trasfigurazione ad un unico livello di osservazione si oppone ad una mera imitazione impedendo, di conseguenza, che il risultato possa trasformarsi in casi di kitsch conclamato.

Perciò non deve sorprendere se anche nelle riflessioni degli intellettuali del Seicento, il dibattito intorno al rapporto originale/copia assunse i contorni di un vivace scontro dialettico. Esemplare in tal senso fu l’intervento di Giambattista Marino, in relazione alla controversia sorta fra Agostino Carracci e Domenico Zampieri, detto il Domenichino, a proposito del dipinto la Comunione di San Girolamo, che il secondo eseguì, ispirandosi ad un dipinto del primo, una quindicina di anni più tardi, per la chiesa di San Girolamo della Carità in Roma. In una lettera al pittore e poeta Claudio Achillini, inclusa la prefazione dell’opera La zampogna (La sampogna, 1620), egli ribadisce l’assoluta libertà dell’artista e, assolvendo il Domenichino, aggiunge un invito ai pittori a escludere la natura dal linguaggio poetico dal momento che era umanamente impossibile farne copia identica.

Insomma, anche nel Seicento il tentativo di produrre copie identiche era ritenuto decisamente più affascinante e, rinunciarvi, culturalmente molto più costoso. Vale la pena di ricordare una storia, particolarmente buffa, raccontata da Carlo Maria Cipolla, che evidenzia la forte tendenza alla replica, presente negli stessi anni che videro la sfortuna del povero Domenichino. Gli artigiani italiani, rispetto a quelli inglesi, forgiavano le armi e le armature arricchendole fino all’inverosimile di preziosi dettagli antropomorfi, cosa che non solo andava a scapito della funzionalità, ma anche del costo, richiedendo molto lavoro. Straordinario è il caso della bourguignotte cesellata da Filippo Negroli (1510-1579 ) per Carlo V nel 1533. Essa è una vera e propria scultura ispirata alla tradizione militare romana, di gran moda in quel periodo. Le cronache del tempo narrano che l’imperatore spagnolo fu così affascinato dalla bourguignotte, che lo stesso Negroli aveva fatto su ordinazione di Francesco Maria della Rovere, appena un anno prima, da commissionargliene una per sé corredata da uno scudo, ornato da una magnifica testa di leone, a simboleggiare il coraggio, la forza e la magnanimità. Cipolla racconta che tali opere, sebbene apprezzate per la loro squisita fattura, fecero sì che gli Italiani fossero derisi in tutta Europa per questa loro ricerca ossessiva del bello naturale. Nonostante le critiche non certo benevole, i nostri artigiani non desistettero e continuarono a forgiare armature preziose, anche se tale insistenza costò loro carissima sia in termini di denaro sia di prestigio.

Le Kunstkammer e le mappe antiche, allo stesso modo dei souvenir delle città d’arte e di tutta l’oggettistica che caratterizza il periodo fascista, sono la prova evidente che nel caso in cui l’uomo tenta di replicare la realtà, il kitsch è inevitabile. Nonostante i fallimenti o la parzialità delle sue riproduzioni, l’uomo pare non accettare i propri limiti e si dedica da sempre non solo alla replica di ciò che lo circonda, ma, e a più riprese, tenta l’impossibile, dedicandosi ambiziosamente alla replicazione di se stesso. Tali progetti, per esempio nella robotica, prevedono il coinvolgimento, nella stessa unità spazio-temporale, di almeno due livelli specifici: quello tecnologico e quello estetico. Quest’ultimo, che in verità è solo apparentemente irrinunciabile, diventa la causa scatenante del kitsch, in quanto non solo può condizionare o compromettere la straordinarietà dei risultati altrimenti raggiungibili – ad esempio la funzionalità stessa dell’hardware – ma è rivelatore intransigente delle difficoltà che ancora incontriamo nello stabilire un corretto rapporto uomo/macchina.

L’uomo contemporaneo, esattamente come quello che ammirava gli artifici di Erone, o “invidiava” l’abilità dell’esotico turco nel gioco degli scacchi che il barone portava di piazza in piazza, appare essere “vittima” dell’idea che l’oggetto tecnologico più adatto sia quello che consente di stabilire una relazione immediata, cioè non mediata da interfacce o procedure che possano sottolinearne l’alterità rispetto alla propria condizione umana. Del resto i fallimenti non oscurano l’ambizione di creare repliche; un’ambizione, questa che, pur avendo attraversato secoli di incredibili metamorfosi e nonostante i risultati siano stati inevitabilmente kitsch, è pronta a riemergere dalle nebbie della leggenda e della storia della cultura in una fantastica attualità.

Aggiornato il 21 marzo 2018 alle ore 18:53