“Il piacere dell’onestà” in scena al Quirino

mercoledì 4 aprile 2018


L’armamento etico dell’onestà. Colpisce l’immaginario e disarma il complotto. Molto bella e complessa nei suoi significati reconditi e nei fili nascosti quest’opera pirandelliana de “Il piacere dell’onestà”, attualmente in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 22 aprile, per la regia di Liliana Cavani, che dirige con grande maestria interpreti sensibili e raffinati quali, tra gli altri, i due attori protagonisti Geppy Gleijeses (Angelo Baldovino) e Vanessa Gravina (Agata). Si tratta della storia vecchia quanto il mondo di trovare una terza persona che si faccia carico di un matrimonio di convenienza che eviti il disonore di lei, Agata, ragazza perbene e di buona famiglia rimasta incinta dalla relazione con lui, il marchese Fabio Colli, un nobiluomo sposato e separato da una moglie notoriamente fedifraga. Il problema nasce proprio dalla scelta del prescelto, Angelo Baldovino, nobile decaduto anch’egli, con il vizietto dostoevskijano del gioco a causa del quale il “meschineddu” si era ritrovato senza crediti, con qualche debito in più e un discreto discredito sociale da smaltire.

Quindi, la prima molla che spinge Angelo a sostenere la facciata perbenista (accuratamente disegnata fin nei minimi dettagli da Fabio, dalla madre di lei, Maddalena, e dal cugino Maurizio Setti) è chiarissima: riscattare con il suo onore residuo chi l’onore l’avrebbe di fatto perduto. Senza contropartite che, appunto, non siano quelle stabilite dal ferreo codice conformista del marito severo e rigido, vero padrone di casa, e dall’assoluta fedeltà coniugale di lei. Baldovino, sottile filosofo e raffinato esegeta di se stesso, sa benissimo che il suo patto pregiudiziale con il marchese Colli è una trappola per tigri, dov’è destinato a cadere alla fine della relativa finzione maritale, trafitto da un reticolo di lance acuminate infilzate a rovescio in fondo alla fossa, mimetizzata da foglie di palma. Perché alla fine, tolto di mezzo lui, il marito disonorato, lei divenga amante legittima del suo unico amore, il marchese Colli. Peccato che, come capita talvolta, all’ultimo momento la tigre scarti di lato e nella trappola finisca proprio il cacciatore, con tutte le spiacevoli conseguenze del caso. Così accade che il maschio della tresca da accusatore del falso ladro divenga per questo semplice inganno soggetto e oggetto di empietà, proprio a causa di quel famoso, imprevisto svincolarsi della vittima designata, “La Belva”.

Credo però che l’abilità di direzione della Cavani stia lì per dirci un’altra cosa assai più sottile, connaturata nell’animo femminile e in quello di Agata, in particolare, che Pirandello erige a Dio dei Giusti. A lei, e soltanto a lei verrà delegato il giudizio divino su chi merita il suo amore coniugale e su chi, invece, sia da giudicare indegno e ignobile della sua mano tesa. Poche, rare e tormentate sono le frasi e le parole pronunciate da Agata, fino a quella decisiva “Io vi seguirò anche per questa via”, con una dichiarazione devastante sia per Baldovino che ne beneficia, sia per il marchese che così la perderà per sempre. Perché il primo per restare onesto deve dimostrarsi ladro per forza, sottraendo realmente il denaro dalla cassaforte, mentre il secondo messo alle corde dalla presenza di Agata, testimone muta del suo inganno, non può né trattenere Baldovino, né denunciarlo per l’appropriazione indebita di quel denaro, essendo lui stesso caduto nella sua stessa trappola per tigri che aveva così meticolosamente costruito per il suo rivale. Così, l’amorale morale di “chi la fa l’aspetti” assume un vago sentore di eternità.

(*) Per info e prenotazioni: Teatro Quirino


di Maurizio Bonanni