Martone rivisita Eduardo

Al Teatro Argentina di Roma va in scena fino al 29 aprile uno dei capolavori di Eduardo De Filippo (“Il sindaco del Rione Sanità”) tra i meno rappresentati dello spettacolo dal vivo italiano. E si capisce perché. Qui, soprattutto nell’attualizzazione che ne fa Mario Martone, va violentemente in frantumi il mito del “politicamente corretto”, dato che è l’Antistato a esercitare la giustizia sociale, penale e civile in base alle proprie regole arcaiche temute e rispettate, in una società dominata dall’arbitrio dei poteri criminali e dalla deprivazione culturale in cui troppi giovani uccidono, violentano e stuprano per semplice noia esistenziale.

Così, i personaggi martoniani (davvero tutti molto bravi nel ruolo) sono esattamente come quelli che oggi si incontrano nelle vie e nelle piazze dei quartieri popolari napoletani: fatti di cocaina; ipercinetici, pronti a usare violenza e a mettere mano al “ferro” (la pistola) per motivi futili. Don Antonio (“Il sindaco”, appunto, colui che amministra la sua comunità nella latitanza dei poteri costituiti) è ben più giovane di quello che ebbe magistralmente a interpretare Eros Pagni tre anni fa, dove la distanza e la freddezza dei gesti, in fondo, lo mettevano un gradino più in alto rispetto alle giovani generazioni.

È tutta un’umanità dolente a sfilare dinnanzi al trono del boss in poltrona, con giovani troppo presto armati e disposti a farsi giustizia senza tenere conto di chi comanda davvero nel quartiere. Come i due amici che litigano per un posto precario di lavoro come buttafuori di un locale notturno; o l’usuraio che pretende un interesse del 10 per cento “a settimana” a fronte di un piccolo prestito che un padre disperato di sei figli non può più ripagare. Bellissima è anche qui la scena in cui Don Antonio risolve il dramma obbligando l’usuraio, giovane e spiantato come la sua vittima, a cedergli il suo credito obbligandolo a contare denaro immaginario. Cosa che, sorprendentemente, l’altro fa tentando di opporsi al diktat ma senza mai andare a fondo, sapendo che una disubbidienza gli sarebbe costata fin troppo cara. Ma, forse, il capolavoro di Eduardo risiede altrove, nei significati del non detto benché mostrato in tutta la sua evidenza. Ovvero, nel rapporto tra la mente, quella del medico chirurgo al servizio della cosca, di estrazione alto borghese, grande amico del boss e suo fidatissimo consigliere, tanto che mai e poi mai Don Antonio potrebbe privarsene, lasciandolo raggiungere il fratello in America.

Piuttosto, lo farebbe attendere da qualche sicario fidato una volta che fosse arrivato in aeroporto, per timore che da libero possa rivelare i segreti di quella terribile Napoli della camurrìa. Ma non si tratta di mettere assieme il braccio e la mente, perché l’intelligenza tattica del Don Antonio ha la stessa raffinatezza di quella del suo amico titolato. Tutti e due hanno la visione esatta, fin troppo fredda e disincantata dello stato delle cose, che è al contempo un dato di fatto e un prodotto dello sfruttamento da parte di entrambi del disagio sociale, dell’assenza di Stato e dell’anarchia di una città che non ne vuole sapere di regole e diritti.

Altrettanto straordinario è l’impatto delle soluzioni dall’alto adottate dal boss a favore di chi, giovane e sprovveduto, prima di macchiarsi dell’infame delitto del parricidio, accetta che sia Don Antonio a fermare la sua mano. E sono le così dette persone perbene, come il benestante fornaio del quartiere, padre del suo potenziale figlio assassino, che esprime il suo finto e disincantato rispetto per il boss, a essere gli autori ed esecutori della sua fine prematura. Ma è lui, il “Delinquente” massimo, divenuto tale per un atroce atto ingiustizia subito, a volare più alto di tutti, impedendo che la sua fine sia l’inizio di una interminabile faida.

(*) Per informazioni, prenotazioni e biglietti: Teatro di Roma

Aggiornato il 20 aprile 2018 alle ore 10:27