La classe operaia va in Paradiso?

giovedì 24 maggio 2018


Tutto ha un costo. Tranne la vita. Quella, infatti, è un dono disinteressato che ci viene offerto nascendo. Ma, al contrario di quello che sostiene Gesù nel Vangelo, mentre il Signore abbiglia di vesti sontuose gli uccelli del cielo e li nutre gratuitamente, qui da noi, nell'inferno terrestre, le cose vanno esattamente all'opposto. Non solo tutto è frutto della mitica "Fatica" ma, per mera sopravvivenza, ti devi mettere nelle mani di chi quella fatica te la fa fare in cambio di cartamoneta. Vale la pena, come una volta accadeva nelle catene di montaggio, vivere oggi una vita da schiavi, per macinare in città invivibili migliaia di km su di una bici scalcinata trascinandosi pericolosamente sulle spalle la gerla del fornaio di una volta, pur di svolgere lavoretti a tre euro l'ora, tipo Deliveroo, che promette di "bring you the food you love, right to your door!"? Chi sta peggio? Certamente l'ipersfruttato dalla "Gig-economy" (quella delle piattaforme di Silicon Valley, come Google, Amazon, Facebook, Airbnb, etc., che guadagnano centinaia di miliardi di dollari all'anno senza fare, praticamente, un solo occupato stabilizzato pagando per di più spiccioli di tasse in tutti i Paesi occidentali!) che mette a disposizione per pochi spiccioli non solo il suo tempo di lavoro, ma anche i "suoi" mezzi di produzione senza ricevere in cambio nessuna pensione né assistenza sanitaria.

No. Ripensandoci bene stava meglio l'Operaio-massa magistralmente descritto nella divertente (si fa per dire!) e geniale rivisitazione di "La Classe Operaia va in Paradiso", in scena al Teatro Argentina fino al 27 maggio, per i testi Paolo di Paolo e la regia di Claudio Longhi. Lino Guanciale interpreta con un'arte consumata da mattatore istrionico, che condivide ogni gesto, emozione e parola con i suoi compagni di scena, il personaggio chiave di Lulù Massa, l'uomo-macchina, il cottimista che si identifica con la sua postazione di lavoro inseguendo con la sua abilità manuale i ritmi sempre più veloci della produzione tayloristica degli anni 70, tormentato da un forte calo di desiderio per la sua compagna forte e rassegnata. Eppure lì, in un habitat demenziale e innaturale, governato da sanguisughe in camice bianco che cronometrano i tempi di lavoro e sono ferocemente fedeli ai loro padroni fino ad annullare in se stessi ogni residuo di umanità, esisteva un legante formidabile: la coralità. Uomini separati tra di loro che "non avevano tempo nemmeno per pisciare", legati pur sempre dal filo invisibile della comune sorte (cattiva, naturalmente) e dagli umori di una rabbia rassegnata agli extra del cottimo che consentiva loro di comprare "cose". Alienazione, follia, ospedale psichiatrico, amputazioni: tutto per l'unico fine di tenere in piedi il profitto padronale e con esso la sua mostruosa società dei consumi.

Tra bellissime, originali stornellature di un menestrello scapigliato che si aggira nella platea per un pubblico estasiato, si abbatte la Quarta Parete rigettando senza sosta verso il basso le scorrerie di un '68 maturo, in cui dall'esterno dei cancelli delle fabbriche studenti fuori corso a vita spingono alla rivolta gli operai, alla quale violenza verbale si oppone quella dei sindacalisti collusi di una Triplice in fioritura. Poi, gli amori clandestini di Lulù, le scene di sesso perfettamente mimate in cui il sentimento maschile è un aborto mentale dentro un pensiero dominato dal fare ciclico e acefalo dei "Tempi Moderni" di Chaplin, che rimane come riflesso condizionato e oligofrenico anche quando la macchina è lontana dalle braccia di Massa, inchiodata nella sua fabbrica del malessere. A latere, nel ruolo di narratori atipici, Autore e Regista che cavalcano il "Come eravamo" nelle immagini del grande schermo posto sullo sfondo, scambiandosi punti di vista su come impostare le scene aiutati da comparse e attori, in una sorta di teatro di complessità tre (teatro nel teatro, entrambi immersi in un ologramma cinematografico). Si muore per abbattere il muro che ci separa dalla verità ultima e raggiungere chi aveva, inutilmente, capito tutto prima di noi precedendoci.

 


di Maurizio Bonanni