Perché lo storico deve leggere Roth

lunedì 28 maggio 2018


"La politica è la grande generalizzatrice e la letteratura è la grande particolareggiatrice, e non tanto esse sono fra loro in relazione inversa, ma hanno addirittura un rapporto antagonistico. Per la politica la letteratura è decadente, molle, irrilevante, fastidiosa, ostinata, noiosa, una cosa che non ha senso, e che non dovrebbe neanche esistere. Perché? Perché la letteratura è l’impulso ad entrare nel particolare. Come puoi essere un artista e rinunciare alle sfumature? Ma come puoi essere un politico e permettere le sfumature? Come artista le sfumature sono il tuo dovere. Il tuo dovere è non semplificare. Anche se tu dovessi scegliere di scrivere nel modo più semplice, alla Hemingway, resta il dovere di dare la sfumatura, spiegare la complicazione, suggerire la contraddizione. Non cancellare la contraddizione, non negare la contraddizione, ma vedere dove, all’interno della contraddizione, si colloca lo straziato essere umano. Tener conto del caos, farlo entrare. Devi farlo entrare. Altrimenti produci propaganda […]. Il militante introduce una fede, una grande idea che cambierà il mondo, mentre l’artista introduce un prodotto per il quale al mondo non c’è posto". Ed ancora: "lo scrittore non si deve limitare a osservare e descrivere, ma deve partecipare alla lotta. […] Loro ci credevano a questo. Cazzate. Propaganda".

Così scriveva Philip Roth in Ho sposato un comunista, del 1998.

Circa ottant’anni prima, nel 1917, in una conferenza tenuta di fronte agli studenti di Monaco (e poi pubblicata con il titolo La scienza come professione), Max Weber aveva affermato che “la politica non si addiceva alle aule universitarie”: il “vero maestro si guarderà bene” dall’imporre a uno studente “ex cathedra una qualsiasi posizione particolare, sia esplicitamente, sia per suggestione, che è naturalmente la forma più disonesta di imposizione [...]. Ma perché non dovremmo farlo? [...] Perché la cattedra di un’università non è posto per profeti e demagoghi. […] Sono disposto a dimostrare, basandomi sulle opere dei nostri storici, che ovunque l’uomo di scienza giunga col proprio giudizio di valore, lì cessa ogni comprensione dei fatti”.

Karl Löwith, allora studente e presente alla conferenza, avrebbe commentato: “Dopo gli infiniti discorsi rivoluzionari degli attivisti letterari, la parola di Max Weber era come una liberazione”.

Le parole di Weber e Roth sono un tesoro prezioso, una trincea da difendere, questa sì fanaticamente ogni giorno, da parte di chi rifiuti l’idea che l’attività di ricerca o le creazioni artistiche debbano perseguire obiettivi extra scientifici, svolgere compiti terapeutici, di rigenerazione e legittimazione di sistemi politico-istituzionali. Lo storico, se veramente tale, come anche l’artista, non deve partecipare, a parer nostro, ad alcun processo di nation building.

Né costruttore di identità né dispensatore di virtù, deve anzi correre il rischio che il proprio lavoro possa talvolta rilevare una contraddizione, insanabile, tra le esigenze della professione storica e i doveri civici discendenti dall’appartenenza a una comune cittadinanza. Deve, à la Roth, “osservare e descrivere” lo “straziato essere umano”; né più né meno.
Fatto questo, come suggeriva Marc Bloch nella sua Apologia della storia, “il suo compito è concluso”.

 


di Luca Tedesco