Bada come parli

martedì 26 giugno 2018


In Italia quella della lingua è una storia antica. Varie e discordi sono state le questioni sorte su di essa, a partire da Dante che nel “De vulgari eloquentia” si augurava che il volgare, coi suoi diversi dialetti, potesse assurgere al rango di una lingua comune, “illustre”, “cardinale”, “aulica” e “curiale” (cioè propria di una comunità politicamente divisa ma culturalmente unita).

Nel corso dei secoli molti hanno protestato contro le “penne sciaguratissime che propagano e consacrano tutto il dì l’ignominia del nostro idioma”. Napoleone stesso nel 1809 emanò un decreto “per la conservazione della lingua” e il ministro dell’Interno del Regno Italico intervenne contro l’uso dei barbarismi burocratici.

Nel 1877 il noto filologo Pietro Fanfani nel suo “Lessico dell’infima e corrotta italianità”, dopo avere sottolineato che “la mancanza de’ superiori” determinava “il graduato corrompimento di nostra lingua, operato dai ciarlatani del nostro secolo”, scriveva testualmente: “Non poche volte gli stranieri hanno mosso accusa agli Italiani, o che non sanno la propria lingua, o che essa è poverissima, o che, infine, non hanno vocabolarii ben fatti, perché così ne’ loro scritti, come nel parlare, usano voci e maniere di dire, o che non sono registrate ne’ vocabolarii, o, se sono, hanno altro senso. E lo stesso dicasi del parlare”.

A parte le proteste di alcuni studiosi e qualche manifesto (come quello redatto e diffuso dai membri dell’Accademia degli Incamminati, che denunciava il disinteresse delle Istituzioni nei confronti del nostro patrimonio lessicale), niente si è mai fatto in Italia (tran­ne che nel Ventennio) per la tutela della lin­gua italiana. Nel 1994, con l’avvento del centrodestra, qualcosa si tentò con l’istituzione di un “Comitato ministeriale per la salvaguardia della lingua italiana”, di cui fecero parte illustri studiosi di diverse ideologie politiche, come Tullio De Mauro e Giovanni Nencioni (e fui io, durante la prima seduta, a proporre la parola “salvaguardia” perché alcuni si erano scandalizzati nel sentire “difesa” e “tutela”). Ma caduto quel governo cadde pure quel Comitato (perché la destra aveva osato mettere il naso anche nella lingua).

In Italia ognuno parla e scrive come gli pare. E non solo “per mancanza de’ superiori”, ma anche perché nel nostro paese la lingua, come tutte le leggi e tutti i discorsi dei politici, si presta a diverse interpretazioni e a diverse trascrizioni. Per fare un esempio, quasi tutti, professori compresi, parlando degli appartenenti al movimento letterario del Romanticismo li definiscono romantici, quando il termine esatto è romanticisti: “romantico” è termine generico riferibile a persona di qualunque epoca che abbia quei caratteri propri del Romanticismo, ma è improprio se riferito al movimento letterario. D’altra parte non diciamo verista? Non diciamo illuminista? Non diciamo positivista? Ma diciamo, anche qui sbagliando, “decadente”, quando dovremmo dire “decadentista”.

L’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, riferendosi alle cosiddette quote rosa, cioè le donne a cui dovrebbe essere riservato un numero di parlamentari pari a quello degli uomini, ha detto che quello di usare il genere maschile anche per le donne è un “linguaggio sessista”, e ha proposto per la donna “presidenta” invece di “presidente” (quando esiste “presidentessa”), “sindaca” invece di “sindachessa”. Come dire “professora” invece di “professoressa”, “studenta” invece di “studentessa”, “amanta” invece di “amante”, e così via.

Ora - è accaduto sabato scorso in un programma della 7 - c’è stato un dibattito anche sui “migranti”, in cui una nota linguista, lamentando l’uso improprio che gli italiani fanno spesso delle parole, si è soffermata sui migranti, che Salvini e la destra - dicono gli avversari - guardano con disprezzo. Ebbene, la nota linguista avrebbe dovuto sapere e spiegare che “migranti” (dal verbo latino migro) sono coloro che “si spostano da un luogo all’altro” anche all’interno del proprio paese. Io, per esempio, sino all’età di vent’anni, in Italia sono stato un migrante, nel senso che, essendo mio padre ufficiale di carriera e soggetto a continui trasferimenti, ogni anno cambiavo città (dalle Alpi al Lilibeo). È dunque inesatto usare la parola “migranti” per indicare coloro che dalla loro terra natia si trasferiscono in una terra straniera: si deve dire “emigranti” (da ex, fuori, e migro, mi sposto), cioè che escono dalla loro terra natia per recarsi in un’altra, dove, una volta che vi abbiano messo piede, diventano “emigrati”, e una volta che vi si siano insediati diventano “immigrati” (anche se non si inseriscono come dovrebbero adeguandosi alle leggi e alle usanze del nuovo paese).

Stiamo attenti, dunque, a come parliamo. E controlliamo i nostri atteggiamenti: Luigi Barzini diceva che gli italiani quando parlano litigano. Lo vediamo anche nei dibattiti televisivi, in cui spesso quelli che dovrebbero essere dei moderatori sono dei provocatori, che tolgono continuamente la parola ai loro avversari politici. Le donne sono ancora più aggressive: “Aspetti, aspetti, si fermi, stia zitto, non è così, lei deve rispondere alle mie domande, io qui sono a casa mia”, e cose di questo genere. Romano Prodi ad alcuni giornalisti di destra che volevano intervistarlo, sorridendo e con evidente disprezzo, disse: “Ma voi che cosa siete?”. Ebbene in quel “che cosa” c’era dentro di tutto: brutti, sporchi e cattivi, rozzi, incivili, ignoranti. Lucia Annunziata definì “impresentabili” non solo i politici di destra ma la maggioranza degli italiani, che sono appunto di destra, e anche in quella parola c’era dentro di tutto. Rosy Bindi addirittura, sempre a giornalisti di un quotidiano di destra, tagliando corto, rispose: “Io con voi non ci parlo!”. Questi sono, in genere, gli italiani, i quali volgono tutto in politica, anche quando parlano d’arte (come osservava Stendhal) e di sport. Quando la destra vinse le elezioni politiche nel 1994 qualcuno esclamò: “Porca Italia!”. Sono di gran lunga più numerosi gli insulti della sinistra contro la destra che quelli della destra contro la sinistra. Come del resto accadde nel primo dopoguerra, quando ad accendere la miccia della lotta civile e della discordia fra gli italiani furono i sovversivi, cioè i comunisti e i socialisti, che insultavano e uccidevano i reduci e volevano consegnare l’Italia alla Russia: “Farem come la Russia, farem come Lenìn”, andavano gridando per le strade, prendendo a randellate chi non salutava col pugno chiuso le bandiere rosse che sventolavano nei loro cortei.

Dopo più di un secolo siamo ancora divisi in “fascisti” e “antifascisti”. Sempre “addietro degli altri” (come diceva Leopardi). Non riusciamo a liberarci di queste cianfrusaglie. Quale futuro, quale cambiamento ne può venire? Ma poi il fascismo, nel senso lato della parola, è sempre stato un atteggiamento tipico degli Italiani, la divisione stessa in fascisti e antifascisti è una forma di fascismo. Mino Monicelli scriveva: “Il fascismo noi italiani ce l’abbiamo annidato nel profondo e, a tratti, erompe a galla, senza che noi stessi ce ne avvediamo. Secondo non pochi studiosi il fascismo latente è un frutto della struttura politica nazionale che è già maturo nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Ha detto uno storico revisionista che quando il fa­scismo nacque l’Italia non era ancora fascista (oh sì, invece, lo era, senza saperlo). Il fascismo, qui da noi, è qualcosa che viene da molto lontano. Non dal primo dopoguerra, dall’immediato anteguerra o dal fine Ottocento; da molto più in là. Per cui il fascismo è un bacillo endemico dell’assetto ge­netico nazionale”.

 

In questa Italia divisa e faziosa

non c’è degli avversari alcun rispetto:

si parla e sparla, ahimè, con una prosa

enfatica, con odio e con dispetto.

 

Ma la sinistra è la più presuntuosa,

e questo è sempre stato il suo difetto

fondamentale. È cieca, rancorosa

da quando è nata: ti prende di petto,

 

ti aggredisce se sei del centrodestra,

che mai non le farebbe il controcanto

se non fosse aggredito. Essa è maestra

 

in questo campo, è lei che getta il guanto

della sfida, che semina ed orchestra

tutte le accuse, e volge il riso in pianto.

 

 


di Mario Scaffidi Abbate